Solo per un attimo


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Erano ormai due settimane che la professoressa F. non metteva il naso fuori dal suo studio. Quattordici giorni penduli di sole e luna sostenuti a palpebre sbarrate, col sonno revocato e scacciato via a sorsi di caffè bollente e amaro, come piaceva a lei, concesso macchinalmente dal distributore di bevante calde che si era fatta per l’appunto sistemare nell’angusto rifugio. A sue spese.

Del resto non aveva destato più di tanto scalpore: nell’ambiente accademico era nota per alcune astruserie, per il suo modo di fare eccentrico e per tutta una serie di tic nervosi che l’avevano resa famosa soprattutto tra i suoi allievi, che ne facevano crudelmente ma fino a un certo punto l’oggetto delle loro giovani e pernacchie risate. Perché in fondo tutti gli studenti le volevano un gran bene. Trovavano in quel suo comico tenere banco una prevaricazione in meno, un ostacolo attutito nella noia da una squisita involontaria buffoneria, un idolo da sbeffeggiare senza ritegno, e per questo le erano inconsciamente grati.

Lei, neanche a dirlo, non si accorgeva
nemmeno di tutto
il parlare che faceva di sé
non appena inforcava
le lenti e sbatacchiava
il muso a guisa di cammello,
slittando le mascelle
come un ruminante occhialuto,
né si rendeva conto di strabuzzare
gli occhi infinitesimi
col fare di un lemure spaurito,
provocando al di là
delle barriere trasparenti
un ilare consenso di bisbiglii.

Ma nell’eco delle aule ricolme di gioventù era un’arte, informale e inconsapevole, e le ore volavano via leggere come le sue parole di indubbia sapienza, per poi insabbiarsi in notti confortevoli dal sapore di libri letti fino a tardi. Preoccupazioni, mariti, figli, in realtà non ne aveva. Era fondamentalmente libera, felice e appagata.

Eppure sembrava che qualcosa, ultimamente, la turbasse. Lungo i corridoi dell’ateneo già circolava da tempo la voce che la luminare si stesse dedicando a un importante progetto, una cosa degnissima, ammetteva lei come a non volersi troppo scoprire, una delle sue solite fissazioni, bofonchiava il rettore seccato. Ma non c’era in realtà alcuna ragione per non assecondare le sue richieste. Visto che si trattava, a sentire la professoressa, di una ricerca a costo zero e con enormi potenzialità in termini di crescita di prestigio dell’università e di tutto il corpo docenti. In trent’anni di appassionato insegnamento non aveva mai fatto un’assenza, e in nessun modo si poteva dire che non fosse uno dei più meticolosi ricercatori dell’istituto, quindi negarle appoggio sarebbe parso iniquo e addirittura crudele agli occhi di tutto il senato accademico. Malvolentieri il gran capo le concesse un mese libero e uno stretto stanzino che fece inzuppare, come richiesto, di pesanti manuali di psicologia, rigorosissime antologie di filosofia esistenzialista e trattati di sociologia dell’ultima ora provenienti da un po’ ovunque. Insomma la professoressa aggregò una sfilza di preziosi strumenti in grado di approfondire quelle vaste materie in ogni loro punto.

Lei in realtà per quanto riguardava la psicologia, di cui nello specifico ambito dell’età evolutiva era appunto professoressa ordinaria e ricercatrice stimatissima, oltre che terapeuta di indubbia fama, ne sapeva ben più di quanto cinque o sei centinaia di semplici libri, per quanto aggiornati, potessero suggerirle. Ma era una donna metodica e dotata di una modestia straordinaria; dunque non volle lasciare nulla al caso. Catalogò uno ad uno tutti i manuali che le erano pervenuti, interpellando quasi con mistica gratitudine il fattorino che le passava incredulo tomi su tomi, e si prefisse un dettagliato calendario di consultazione di ciascuno dei libri. Collaudò con inverosimile solerzia la macchina del caffè, assicurandosi di non farsi mancare dosi adeguate di materia prima, e stette pazientemente ad aspettare che si presentasse il primo giorno di quel fantastico lavoro.

Senza colpo ferire la data fatidica
sconquassò l’ansia
di lei che di solito era capace
di attendere mesi
senza lasciarsi minimamente
corrodere dall’impazienza,
e attenuò sensibilmente,
come a farle un dispetto,
lo scorrere naturale dei giorni.

Ma alla fine decorsero i tempi. Stavolta pareva proprio che si fosse arrivati al dunque. Lei sudava forte e aveva la sindrome dell’esploratore: simile a un’astronauta con le gambe in preda al formicolio si congedò da quei pochi dei suoi allievi che erano venuti a salutarla sullo stipite della porta, forse più a perseguitarla con l’ironia che a concederle un in bocca al lupo. Poi si calò nello studio come fosse stata la cabina del Voyager, conscia com’era di agire per il bene dell’umanità tutta. Strabuzzava gli occhi di commozione – era davvero la prima volta che lasciava l’insegnamento per un periodo così lungo – e con le lenti inumidite dalle lacrime che proprio non le volevano ubbidire diede un passo verso l’antro. Contemplò la meraviglia seriale della carta disposta, a suo uso, su poche rigonfie scaffalature di legno marcio e, appoggiate le sue misere robe per terra, vicino all’ingombrante scrivania di mogano che l’istituto le aveva fornito, si girò l’ultima volta a lanciare un timido saluto al suo pubblico intriso di sorrisi. Quindi serrò la porta e si mise a sedere.

Da allora erano per l’appunto passate due lunghe settimane di eremitaggio , due settimane che sole erano bastate a far scordare a tutti, studenti, ricercatori, bidelli e segretari, senato accademico, rettore incluso, la balzana iniziativa che la professoressa F. aveva intrapreso.

Quando, inaspettatamente,
la porta dello stanzino
che la custodiva
si schiuse emanando
un forte odore di sprangato.

In teoria sarebbe dovuto essere come l’ammaraggio degli uomini di ritorno dalla Luna dopo una missione Apollo. Si aspettava in qualche modo che ci fosse qualcuno ad attenderla, per lo meno un comitato di accoglienza a farle le congratulazioni con un paio di coccarde e pergamene. Invece, al cigolare trionfante di lei che riemergeva, ciondolava soltanto la ramazza di un anziano inserviente intento ad accanirsi svogliatamente contro la sporcizia del pavimento: si era ben oltre il crepuscolo. In compenso lo spazzino la accolse con un sorriso tutto gengive, quasi ammiccante. Le parve un po’ strano, ma in realtà la cosa la impressionò poco, la sorpresa non la intimorì, sentendo di stringere in pugno con decisiva certezza tutta la verità. Salutò entusiasticamente il vecchio sdentato non senza emanare un forte puzzo di caffè e, trotterellando stretta sul lato sinistro del corridoio per non inficiare il lavoro dell’altro che aveva appena pulito, si avviò verso l’uscita dell’istituto, indi a casa e poi nel letto per il meritatissimo riposo che l’attendeva da quattordici giorni accucciato sotto le coltri.

Si dice che stette a casa a dormire tre giorni di filato, senza nemmeno svegliarsi per fare pipì, addirittura senza dischiudere una, che fosse una palpebra per capacitarsi se era ancora viva o se, invece, spossata dalla lunghissima veglia, non aveva retto e invece di andarsi a fare un pisolino s’era stesa per non alzarsi più.

Ma era di tempra sana e, sebbene non fosse più resistente come quando era una signorina, aurea epoca in cui studiava mesi e mesi di seguito senza perdere colpi e senza tralasciare una sillaba di quanto apprendeva, riusciva ancora a non soccombere alle più feroci fatiche intellettuali: sgranati dolcemente gli occhi inforcò le lenti, scese dal letto in un gran balzo sui talloni e con una certa fretta, non senza una senile baldanza, si diresse verso il bagno. Fece scivolare i mutandoni e diede ristoro alla sua vescica di vecchia, ormai al limite. In un impeto di gioia sogghignante mancò il centro del gabinetto e produsse una bella chiazza di urina sul tappetino ai piedi del vaso. Non ci badò troppo.

Quella era una giornata speciale. Una volta tolto l’ispido che le era cresciuto sulle labbra – a che non si vedessero i suo baffi duri e neri ci teneva eccome – si sarebbe lavata accuratamente, per poi vestirsi di tutto punto col suo miglior tailleur. Poi di corsa, si fa per dire, per il cono delle scale e attraverso il portone, attraverso il saluto del portinaio, si sarebbe imbattuta nel tram che l’avrebbe portata dritta dritta in istituto. Pochi deliziosi minuti di silenzio incredulo e forzato, poi le congratulazioni dei colleghi e delle segretarie per la storica scoperta. E non solo: le lodi del rettore e le conferenze, gli applausi degli allievi. Il riconoscimento di tutta la comunità scientifica. Che giornata, che giornata!

Stava giusto finendo di sognare e di detergersi gli occhi con un getto di acqua tiepida, le lenti adagiate sul ripiano di marmo celestino, quando non seppe più resistere all’orgoglio che le comprimeva il petto. Rivolgendosi con tono ardito, quasi drammatico allo specchio che le stava davanti, urlò rabbiosamente:

Senza di te, il mondo non esiste!

Fu così che, del tutto sorpresa per la genialità e l’efficacia con cui aveva saputo esprimere la sintesi di una ricerca costatale tutta una vita, cominciò a ridere e a sibilare parole incomprensibili. Rideva, rideva, rideva così tanto che i suoi stessi versi sembravano farla sussultare.

Si piegava in due, si contorceva,
si spezzava sotto il fragore inarrestabile
dei suoi spasmi,
si raggomitolava su se stessa
come un mollusco,
la fronte sui palmi dei piedi
in una spirale che indugiava
solo sugli scricchiolii
della colonna vertebrale.

Rise così tanto quella mattina che ci rimase secca. Morì felice, inebriata, con la bocca spalancata a U, come fosse stato un meraviglioso sogno-suicidio. E fu poi così che la trovarono qualche giorno dopo gli agenti speditile a casa incaricati di verificare le sue condizioni: stesa a terra, con la testa su un tappetino blu macchiato di piscio in un bagno dalle ceramiche azzurrate, perfettamente tirate a lustro. Aveva un’espressione serafica, addirittura gioiosa, probabilmente non aveva nemmeno sofferto il colpo della morte. Sembrava una vecchia inerme, quasi inutile, la stimata professoressa. Eppure per un attimo lei aveva saputo tutto.

12 pensieri su “Solo per un attimo

    1. mo quasi quasi apro le votazioni: se volete che rimanga in vita scrivo un finale alternativo in cui la rianimano e lei ha la possibilità di condividere col resto del genere umano la sua incredibile scoperta…

      naaaaa, non le crederebbe nessuno: meglio così.

      "Mi piace"

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