Minacciava pioggia. Impercettibilmente da ovest le nuvole si erano come raggrumate in un’opprimente condensa grigiastra e uniforme. Senza sfumature, senza ombre, con la sola vaga certezza dell’acquazzone imminente. Un vento secco e asciutto cominciò in maniera del tutto inaspettata a soffiare, spazzando con foga l’erbetta delle colline circostanti e piegando i rami dei radi pioppi spersi per la campagna. Un denso pulviscolo sospinto dai mulinelli d’aria si levò dalla stradina sterrata che serpeggiava fra le alture, disperdendosi fastidiosamente nell’atmosfera torrida di quel pomeriggio di prima estate.
In lontananza, una minuscola figura si muoveva
come fosse stata anche lei portata in braccio
dal vento lungo il sentiero sconnesso.
Con tutta la polvere che le si appiccicava sulle gambe perlate di sudore, la Marisa continuava a pedalare senza sosta, girando di tanto in tanto la sua testa nera e ricciuta verso il groviglio di nuvole, come se ne stesse disperatamente fuggendo. Nell’aria intrisa di tafani e cicale la Marisa pedalava e s’affannava facendo ondeggiare in su e in giù i boccoli lucidi, sventolando con disinteressato vorticare di cosce e polpacci il rosso della gonnella, coprendo di ansimi e bestemmie il ripetitivo cigolare della vecchia bicicletta del babbo. Che cosce che aveva la Marisa, da far venire l’acquolina in bocca solo a guardarle, cosce sode e affusolate da mordere, da stringere fra i denti come fossero stati giganteschi frutti rosei e polposi. E come le muoveva quelle meraviglie, con la grazia di una puledra, con le movenze di una farfalla.
E questo perché lei, la Marisa, non era mica cresciuta come le altre, curvate a zappare la terra e a disseppellire i sassi, a spezzarsi le unghie con le vanghe e i rastrelli. Lei, il babbo l’aveva mandata via. In città, aveva detto, dove avrebbe studiato un po’. E soprattutto imparato le buone maniere, per diventare una signora come si deve. Ché lì, tra porci e conigli, avrebbe di sicuro finito per diventare una delle tante che sfornavano ragazzini a tutto andare, per di più senza avere voce in capitolo in niente. Figurarsi nelle faccende dei soldi. E il babbo a questo teneva soprattutto. Mica aveva lavorato tutta la vita a raccogliere fortuna per poi farsela portar via dal primo venuto che fingeva di sbavare dietro a sua figlia!
Un po’ di orgoglio, signorina! Le diceva da quando era poco più alta di un soldo di cacio, e col pretesto di insegnarle a farsi sempre rispettare l’aveva abituata ad avere tutto ciò che voleva. Morta la moglie quando lei era ancora piccina, non aveva mai saputo opporsi a quella minuscola meraviglia.
Le scarpette verniciate caro babbo!
Le calze di seta caro babbo!
La bambola col vestitino azzurro caro babbo!
I nastri colorati caro babbo!
Ed era semplicemente adorabile.
Inutile dirlo, si sentì spezzare il cuore quando la dovette baciare alla stazione della strada ferrata, con lei garrula che ispezionava con occhi sgranati la maestosa figura del treno che aveva il compito di portarla via, verso un ignoto elettrizzante. Ma era per il suo bene, pensava, non le sarebbe mai mancato nulla, si convinceva accarezzando con lo sguardo intorpidito dalle lacrime i tre bauli che l’avrebbero accompagnata fin dentro le mura del collegio delle Sorelle di Carità. Si rasserenò un poco, la bimba aveva un sorriso fiducioso, e il cuore che le scoppiava di una gioia ingenua. Partì salutandolo dal finestrino, con la manina raggiante che agitava uno dei suoi nastri colorati.
Ma ora la Marisa era lì, a pedalare sul sentiero polveroso, con la stessa espressione impertinente e consapevole di quand’era bimba, gli stessi ricci aristocratici, lo stesso viso minuto e ben tornito, però cresciuto e diventato di donna, con le labbra dipinte e gli occhi accuratamente insudiciati di trucco. Si faceva strada fra le campagne che un tempo erano state tutte del padre, imprimendo con le sue gambe da puledra la spinta per far volare quella bicicletta, producendo con garbo ed irruenza quello sferragliare di catene e ruggine. Correva la Marisa, ché di lì a poco sarebbe venuto un acquazzone colossale: i lampi già la pugnalavano alla schiena incrinandole un po’ della sicurezza che si era stampata sul volto prima di uscire, esplodevano nell’aria facendole accartocciare lo stomaco di paura ed eccitazione. E di nausea. Correva la Marisa verso un punto indefinito nascosto tra le lievi pendenze dei colli spazzati dal vento, mentre le prime gocce già si facevano sentire lambendole grosse e fredde le spalle. Sentiva crescersi dentro quell’ansia familiare delle cose nuove e spiacevoli, ma necessarie.
Come un rigurgito che l’attraversasse
quasi si sentiva piegata da ciò che stava
per fare e si scopriva con indifferente sorpresa
umiliata e allo stesso tempo straordinariamente forte.
Era la sensazione già provata al collegio, quando alcune tra le più giovani sorelle di Carità, invidiose di lei e dei suoi abiti e dei suoi oggetti costosi e sgargianti, proprio loro, quelle streghe grige e pelate, con un qualsiasi pretesto la conducevano a forza e con malcelata soddisfazione dalla badessa perché venisse ingiustamente bacchettata a sangue sui palmi delle mani. O quando a mensa le novizie, che pure non la potevano sopportare per il suo rango, per la sua eleganza e per lo sdegno che una persona ricca come lei usava nei confronti di femmine misere come loro, le procuravano delle grane raccontando alle sorelle che lei quel cibo disgustoso, quelle pappe d’avena e verza, non le mangiava, ma le gettava di nascosto. Perché? Perché quella robaccia a una come lei faceva schifo.
Così si puniva la dea incompresa:
sbriciolandone le mani a forza di vergate,
mortificandone l’aspetto con stracci imposti,
divorandone la dignità a furia di sguardi malevoli, invidiosi,
o peggio del tutto indifferenti.
Ma lei non si piegava, le sue ossa non si spezzavano, e non una lacrima osava attraversarle il viso; possedeva un orgoglio e una consapevolezza smisurati, che non potevano essere scalfiti da così poco. Orgoglio… Un po’ d’orgoglio signorina! E sorrideva, ripensando al suo babbo, alla sua voce cavernosa e terribile solo per finta, alle sue mani forti e lisce nonostante il tanto lavoro, ai suoi abiti sobri ma ineffabilmente eleganti, che in fondo emanavano un forte profumo di terra e di pazienza; e si sentiva già meglio, ritrovava se stessa, si riconosceva immediatamente. Allora né frustate né bisbiglii né lontani disprezzi potevano toccarla. Lei era altro.
Io sono altro.
Ma la pioggia, che era stata fino ad allora soltanto una composta minaccia, cominciava a riversarsi con insistenza sui suoi riccioli, le inzuppava senza ritegno la camicetta e la gonna, apriva nel terreno polveroso grosse pozze d’acqua e fango che la costringevano a muoversi su quel trabiccolo arrugginito come un contorsionista ubriaco. Bestemmiava a ogni sussulto, lanciava sguaiati infantili gridi di imprecazione, quasi rideva per l’ebbrezza di quell’avventura. Scavata nella pioggia era pioggia lei stessa, era estasi d’acqua, scroscio senza fine, spruzzo di fango dispettoso e prepotente, tessuto inzuppato di gonna che un paio di gambe succose vorticavano senza alcuna malizia.
Ma non durò; era praticamente arrivata. L’acquazzone improvviso, come per incanto, le aveva fatto scordare per un istante ogni cosa. Ora che si trovava in maniera così inaspettata al dunque, il cuore aveva ripreso a batterle.
Era nei pressi di un enorme vecchio magazzino, mezzo diroccato, con le assi di legno che sfrigolavano sotto la pioggia battente. Una gigantesca porta scardinata ne custodiva l’ingresso. Il luogo sembrava disabitato da tempo immemore.
Rimase per qualche interminabile istante a fissare quell’adito spettrale, poi tirò un gran respiro. Balzò giù dalla bicicletta lasciandola per terra, a macerare sotto l’acqua, e con agili passi da cerbiatta scavalcò le pozzanghere che le ostruivano il passaggio.
Non ci potevano essere dubbi: quello era il posto descritto dalla Lucia. La Lucia, che unica era rimasta a misera testimonianza di un qualche antico agio nell’ormai minuscolo podere della sua famiglia. Non li aveva abbandonati forse per riconoscenza, forse per puro terrore della guerra che imperversava senza tregua. Le Camicie nere prima, i Tedeschi poi. Se le erano prese loro tutte le cose del babbo: i raccolti, il vino, le terre, le case, gli uomini.
L’avevano spolpato, ridotto all’osso,
condannato alla miseria.
Lei, che di queste cose non ne aveva mai capito nulla, si era limitata a tornare in tutta fretta dalla città quando erano iniziati i bombardamenti, smaniosa di riabbracciare il padre, di tornare a fare la principessa, di mandare a quel paese tutte le odiate suore che l’avevano tenuta in catene per dieci lunghissimi anni. Ma ogni cosa era cambiata, tutto era stato stravolto, niente le ricordava in minima parte la vita che aveva lasciato quel giorno alla stazione della strada ferrata.
No, non ci potevano essere dubbi: quello era il posto che le aveva detto la Lucia. Con passo esitante si avvicinò al portone, guardandosi intorno circospetta e sistemandosi alla meglio i riccioli intrisi d’acqua, poi, andato a vuoto il primo tentativo, diede un altro paio di colpi sullo stipite fradicio. Scroscio. Silenzio. Un po’ stupita provò un fremito di gioia, ed era lì lì per girare i tacchi e riprendere la bicicletta quando udì un tramestio provenire dall’interno del magazzino.
“Wer ist dort?”
Quel suono incomprensibile carico di una strana ironia, quella domanda inaspettata e perentoria le squarciò d’un tratto lo stomaco, le sciolse in una sola vibrazione l’intestino, le bloccò il passo. Avvampò.
“Wer ist dort?” ma stavolta era un suono umano, era una testa umana che sbucava maldestramente dal portone del magazzino, erano un paio di occhi che si accorgevano di lei e dopo una immediata sorpresa se ne compiacevano. Ora lei era sola e aveva svelato il suo proposito. La faccia la guardava, la scrutava, si accendeva di interesse, si voltava nuovamente verso l’interno.
“Jungen, es gibt einen besuch um euch!”
La faccia era tutta un vischioso sorriso, accogliente, ma si vedeva bene che non c’era da fidarsi. Il portone si aprì cigolando e un robusto soldato biondo, la testa di prima, fece eloquenti gesti con le mani come ad invitare la ragazza ad entrare, a mettersi a suo agio, per quel che si poteva. La Marisa ormai non si sarebbe più tirata indietro. Lei, che era abituata a guardare tutti dall’alto in basso, a non considerare nessuno – nemmeno in quei disperati tempi di guerra – degno della sua considerazione, entrò umilmente, come una gattina spaventata, all’interno di quella sudicia stalla. Lei, la Marisa, obbediva senza fiatare all’invito di quelle gigantesche mani ruvide.
“Bist du hungrig, klein?” le diceva dolcemente la voce, mostrandole scatole di carne in conserva e barrette di cioccolata, mentre nuove figure si muovevano parlottando dentro l’incredibile confusione di oggetti che regnava nel magazzino.
Erano almeno in dieci: enormi, sporchi, sudati,
con le divise imbrattate, colle facce tutte scolpite
dalla medesima espressione, estasiati, intenti a guardare
quella meraviglia come se non avessero
mai visto altra donna in vita loro.
Sparse intorno, appoggiate ai muri, gettate confusamente per terra, seminascoste tra la paglia, decine di armi, rivoltelle, mitraglie e cartucce. Un vero e proprio arsenale. Ma dominava la sensazione che quegli uomini fossero in realtà disperati, braccati come topi in trappola. Facevano sì ancora paura alla gente della campagna, ma ormai si sapeva tutti che di lì a poco sarebbero arrivati gli Americani, e che prima o poi li avrebbero cacciati via.
In quel periodo i Tedeschi erano disseminati un po’ dovunque, nel contado. Avevano instaurato come dei piccoli feudi dove ancora spadroneggiavano; ma non si trattava più degli implacabili conquistatori che si erano impadroniti dell’Italia dopo l’8 settembre. Erano diventati usurai, parassiti, profittatori, stanchi soldati che in pratica aspettavano in santa pace la fine della guerra per poi dissolversi, trovare un rifugio, sparire senza lasciare traccia. La povera gente tagliata fuori anche dal mercato nero dipendeva da loro per le scorte alimentari che ancora custodivano con cura, ed elemosinava in cambio di qualunque cosa farina, legumi e tutto ciò che avesse potuto lontanamente avere l’aspetto di qualcosa di commestibile.
Povero babbo, si era ridotto a pelle e ossa, non lo aveva nemmeno riconosciuto quando era tornata dalla città. Spalancando con la solita irruenza la porta di casa se lo era ritrovato così, vecchio, smagrito, con le borse sotto gli occhi, che a malapena riusciva a biascicare due parole, lui che aveva un tempo la voce cavernosa e terribile solo per finta; lui che non si fermava mai era inchiodato senza speranze al letto. Cos’ha il babbo? Se lo è preso la malattia! Ma che malattia è? È una malattia che quando ti prende ti consuma un po’ alla volta. E poi si muore. Ma non si può fare niente? Niente. E poi se non c’è nulla da mangiare, come fa a riprendersi? Già… Senza nulla da mangiare, come fa a riprendersi il babbo?
“Setze! Setze dich! Wir wollen nicht dir weh tun!” diceva amichevolmente uno dei soldati, battendo il palmo della mano sopra una coperta piegata alla meglio sul pavimento lurido.
I soldati. Loro ce l’avevano un po’ di cibo.
Non sarebbe stata la prima né l’ultima volta. Tante altre prima di lei ci erano andate, e i soldati avevano sempre dato loro qualcosa. Certo, le altre. Lei aveva un orgoglio e una consapevolezza smisurati. Non poteva, non voleva farlo… Il babbo muore, Lucia dimmi dove stanno.
Era un trastullo, un meraviglioso trastullo e niente altro. Il babbo la bicicletta il vento la polvere il sudore la pioggia il magazzino giacevano in un’altra fase della sua esistenza. Prima di bussare, prima di quell’incomprensibile frase pronunciata dalla faccia sul portone, era ancora la Marisa, l’irraggiungibile Marisa, dea incompresa, sovrana assoluta della propria vita. Le cose cambiavano attorno a lei passo dopo passo. Per un istante si voltò verso il portone semiaperto alle sue spalle, e un capogiro la scosse: lo scorse come il ciglio del baratro, lo vide chiudersi ignobilmente tra le risate sommesse degli uomini eccitati.
La ragazza, coi riccioli corvini che le pendevano umidi sulle spalle, col suo passo leggero attorniato dai panni gocciolanti della gonna, si fece avanti tra il puzzo infernale che stagnava nel magazzino e gli sguardi avidi che le alitava addosso quella mandria di animali in calore. Ebbe un attimo di sconforto, poi si lasciò cadere sulla coperta che le offriva il soldato tutto felice, forse addirittura convinto di fare del bene a quella piccola creatura affamata. Lui fu il primo.
Con tutta la dolcezza di cui era capace,
fece per accoccolarsi
al suo fianco muovendosi
come un goffo enorme bestione,
e le adagiò un braccio attorno alla vita,
sbottonandole lentamente
la camicetta con l’altra mano.
Mentre lui le tormentava i seni, lei provava di nuovo dentro di sé quella angosciosa sensazione, quel rigurgito che la sconquassava, e un nodo alla gola le serrò qualsiasi suono. Ebbe la tentazione di piangere, sentiva già le lacrime affiorarle dagli occhi, quando all’improvviso si ricordò chi era. Un po’ d’orgoglio, signorina! Mentre il corpo del soldato s’affannava nel suo corpo, spingendolo, si rese finalmente conto di avere le guance calde e umide. Non è niente, si diceva. Non sto piangendo, pensava, è solo un bruscolo nell’occhio.