Carlotta e le altre – quarta parte


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Inutile dire che io ormai davo tutto per scontato. Ora si trattava solo di amministrare e alimentare la meraviglia che le avevo procurato portandola a Genova, rivederla il prima possibile per infliggerle il colpo di grazia, e soprattutto capire chi diavolo fosse – cosa diavolo fosse – il quasi-fidanzato, l’unico aspetto di quella storia che sfuggiva al mio controllo. Una volta capito con chi avevo a che fare, farglielo dimenticare sarebbe stato un gioco da ragazzi.

Già, niente di più semplice.

Quella sera, prima di crollare a letto, avevo bisogno di spiegare a qualcuno tutte le emozioni che avevo provato nelle 36 ore in cui io e Carlotta eravamo stati svegli. Avevo bisogno di confrontarmi con un amico, e forse pure di essere incoraggiato. Ho chiamato Melania, la mia ex storica. “Paaaaaaaaps”, mi ha accolto Melania festante, e si è sorbita pazientemente tutta la mia storia.

Nonostante non stiamo più insieme da sei anni, Melania continua a essere Papera, e io Paps. Con Melania ho condiviso cinque anni della mia vita, e anche se sono stato io a staccare la spina direi che ci siamo lasciati consensualmente, perché la nostra storia non poteva più evolversi, non avremmo fatto altro che limitarci a vicenda. Ci eravamo conosciuti forse troppo presto, tutti e due senza esperienza, tutti e due con aspettative enormi e puerili rispetto a una relazione sentimentale. Che per noi doveva essere emozionante sempre, eroica, itinerante, sofferta e condivisa fino all’ultima lacrima. Il problema fu che a piangere era sempre lei, per i suoi complessi, il suo senso di inadeguatezza, le sue insicurezze, per il confronto durissimo e contundente con tutti gli altri esseri umani che non fossero me. Uno stillicidio, e la sua immaturità sessuale, la sua incomprensione del piacere e la paura che ne derivava, non facevano che aumentare la mia frustrazione. Eppure Papera, Melania , era ed è meravigliosa. A dispetto di tutto quanto, una delle persone più luminose che abbia mai incontrato, la mia prima maestra di scrittura.

Di tutta questa storia, Melania dirà:

“Lei mente a se stessa. È tutta una rappresentazione quella che si è fatta. Dice di essere innamorata di lui, ma se si è comportata così con te è perché deve difendere l’illusione di quel rapporto, che sta tenendo in vita artificialmente. Lei si è sentita minacciata da se stessa e dai suoi dubbi, ma con i suoi dubbi non può prendersela. E allora aggredisce te”

Dopo di me e dopo una breve, focosissima (come sempre accade in questi casi, Melania raggiunse una certa consapevolezza sessuale subito dopo che c’eravamo lasciati) relazione col tecnico informatico dello studio legale del padre, Melania si era messa insieme a un ragazzo pigro, indolente, senza slanci. Arturo era simpatico, per carità, estroverso e appassionato, ma a tratti volgare. Lei trovava in lui una semplicità e una verve un po’ grossolana che soprattutto nei primi mesi aveva scambiato per genuinità, per spontaneità. Si sveglierà, diceva Melania , deve soltanto trovare la sua strada. Solo che dopo essersi licenziato dal negozio di abbigliamento in cui lavorava come commesso part-time, Arturo, che già faceva poco della sua vita fuori da quell’attività, non si era nemmeno messo a cercare un’altra occupazione. Diceva a Melania che si sarebbe presto trovato un altro posto, un lavoro in cui potesse stare a contatto col pubblico. Il suo sogno era aprire un bar, le diceva. Suo cugino stava per aprire una pizzeria, e l’avrebbe preso con sé, la rassicurava. Perché Melania , dopo un anno e mezzo che andava avanti questa storia, cominciava a essere un po’ seccata dell’idea di stare con un uomo senza alcuna prospettiva, e che si crogiolava nello svegliarsi tutti i giorni alle dieci del mattino comodo comodo a casa di mammà e papà. Eppure Melania , quando le facevo notare che Arturo, probabilmente, non era l’uomo per lei, si schermiva, e anzi sosteneva bellicosamente che si fidava di lui, e che di lì a poco Arturo avrebbe aperto questo bar e sarebbero andati a vivere insieme. Poi venne l’Argentina.

Melania vinse una borsa di studio per andare a lavorare al consolato italiano di Buenos Aires per sei mesi. Arturo la accompagnò e rimase con lei per due settimane. Dopodiché, tornò in Italia a continuare a non fare nulla. Ma dico io: hai questa opportunità, hai attraversato l’oceano, hai la casa pagata dal consolato, in Italia non hai niente, non t’è rimasta manco la ragazza. Perché non rimani sei mesi in Argentina, che male che vada impari un po’ lo spagnolo, conosci un paese nuovo, magari ti trovi pure un lavoretto? No, lui tornò in Italia, a casa dei suoi, dove non aveva nemmeno uno straccio di collegamento Internet. Melania non la sentiva né via chat né tanto meno via Skype, si parlavano occasionalmente per telefono, in brevi chiacchierate che spesso tracimavano in violente discussioni. Il guaio è che il povero Arturo nemmeno sospettava che dieci giorni dopo la sua partenza, sì, dopo dieci giorni soltanto, Melania aveva conosciuto un regista di Buenos Aires di nome Alejandro, col quale era scoppiata una storia d’amore travolgente. Io lo sapevo, perché il collegamento a Internet ce l’avevo, e lei mi raccontava ogni cosa, ogni dettaglio, ogni tappa di quella storia che diventava sempre più emozionante. E le chiedevo: ma perché non lo dici a Arturo , perché non lo lasci, ora l’hai avuta la prova che non sei innamorata di lui. Tu sei pazza di Alejandro, basta sentire come ne parli! Ma lei negava, negava, diceva che quella con Alejandro era una storia senza futuro, diceva che lei di lì a qualche mese sarebbe tornata in Italia, e che in Italia c’era Arturo che l’aspettava con la promessa del suo bar e di una vita insieme.

Sono passati due anni da allora. Melania ha lasciato l’inconsapevole Arturo, ma solo parecchi mesi dopo essere tornata dall’Argentina, continua a sentire Alejandro, di cui secondo me è ancora segretamente innamorata, e nel frattempo ha allacciato una relazione con un uomo di 53 anni, sposato con due figli, conosciuto al lavoro. Ecco perché dopo che le ho raccontato della notte passata a Genova insieme a Carlotta, Melania mi ha detto strascicando:

“Eh, beato te Paps”

Il giorno dopo, riacquistate le forze, chiamo Carlotta, e le propongo di vederci l’indomani. “Che giorno è domani, giovedì? Mmmhm devo vedere, ti faccio sapere”, mi dice lei comunque carezzevole. Ma l’indomani mi scrive che la sera sarebbe andato a dormire da lei suo fratello, quindi niente da fare. A quel punto le chiedo, già immaginando la risposta, se quel week end torna a Como.

vado a fare la cuoca in una comunità

ho bisogno di pensare, di dormire, e anche di piangere un po’

Io, che vedo sempre il bicchiere mezzo pieno, penso che ci siamo: qualunque cosa sia questo quasi-fidanzato, la notte passata insieme a Genova deve averla scossa, deve averle procurato un dubbio. A lei piaccio, è evidente. Dunque si ritira in eremitaggio, deve farsi due conti, probabilmente lo deve anche vedere, glielo deve dire. Non mi illudo che tutto si risolva questo week end, so bene che queste cose vanno per le lunghe e che mi toccherà pazientare ancora, ma almeno Carlotta è una ragazza che sa quello che vuole, mi dico, che affronta di petto le situazioni e non fa finta di nulla. Naturalmente sono anche pronto a essere rifiutato. Può darsi benissimo che quel che è successo con me le abbia procurato un senso di colpa, o peggio, le abbia fatto capire quanto in realtà tiene all’altra persona. Comunque sia, mi rassegno all’idea di non vederla, ma non a quella di non essere al suo fianco in quel fine settimana così delicato. Corro a casa e le masterizzo un cd, ci metto dentro tutta la musica più bella di questo periodo della mia vita. Il giorno dopo glielo spedisco in ufficio con un pony express.

Carlotta mi aveva già scritto un paio mail quando ricevette il cd, ma la sorpresa credo le abbia fatto molto piacere.

è un palliativo del cioccolato fondente?

Mi scrive mettendo la frase solo nell’oggetto, al suo solito. E io, enfatico e un po’ commosso:

Non esistono palliativi per il cioccolato fondente.

Sono suoni che fanno bene quando c’è bisogno

di sbucciare un po’ di cipolle.

La risposta di Carlotta è sibillina:

Se non avessi il gatto ti sposerei

Già perché lei è allergica al pelo di gatto. Ma io non voglio lasciarmi lusingare, né far finta di niente su quello che potrebbe essere un rifiuto travestito da complimento:

Scommetto che lo dici a tutti quelli che incontri

E parte da lei una strana bordata, che sinceramente, al punto in cui siamo, faccio fatica a incassare:

no, di solito dico:

se non appartenesse già a qualcun altro, il mio cuore

sarebbe tuo

pratico – comodo – vero

ma credo che a smerdicchio potrei offrirlo su un piatto d’argento

Arieccolo quel “qualcun altro”! Però la parolina che mi trafigge è un’altra, è quel “vero”. Dunque lei c’ha proprio in testa un altro. E che mi dia il contentino dicendo che al mio gatto, al quale è pure allergica, regalerebbe il suo cuore, riesce solo a infastidirmi.

Mi monta in faccia una rabbia improvvisa.

Ancora una volta mi sento preso per i fondelli, con l’aggravante che Carlotta era stata sincera con me, me l’aveva detto del quasi-fidanzato, sono stato io a voler continuare a vederla e a sentirla prendendo la cosa sottogamba. Quindi mi sento preso per i fondelli da chi? Da me stesso e dai miei castelli in aria, ovvio. Le rispondo in maniera piccata, forse anche un po’ sconnessa. Sono arrabbiato, arrabbiato e deluso.

Ti ringrazio, ma non sono interessato a possedere

il cuore delle persone, a maggior ragione se è già occupato.

E in quello di MERDOLINO ci sono solo io!

Ma lei non demorde, pare non abbia capito che ci sono rimasto male, e insiste:

tzè
illuso
e poi, proprio tu, che lo abbandoni senza nutrimento

per l’anima e la pancia, per portare a GENOVA la prima

che incontri

Non le rispondo più, non riconosco più le regole del gioco in cui mi sono infilato, le mie certezze vacillano e per quel giorno ne ho abbastanza, spariglio le carte. Se la veda lei nell’eremo, in cucina, durante il fine settimana. Ne riparliamo al suo ritorno. Non passano nemmeno un paio d’ore che Carlotta mi scrive di nuovo. Cercare di negare il suo acume è un esercizio vano, e una volta di più mi rendo conto che quando penso che non abbia capito le mie ragioni, in realtà lei ha già previsto le mie intenzioni, e ha agito di conseguenza. La sua intelligenza esuberante, prepotente, spietata e gradassa mi attrae in maniera irresistibile. Arriva una mail con oggetto:

non ti sarai offeso?

Ritrovo subito il sorriso, e provo a risponderle, ma la posta elettronica fa le bizze, non funziona più. Le mando un sms:

Più che altro s’è offeso il pc, non mi fa

più usare la mail. E perché mi sarei dovuto

sentire offeso, CODA DI PAGLIA?

Lei, per tutta risposta, mi manda una mail con oggetto:

stronzo

E io la adoro sempre di più. La giornata si spegne insieme al computer: comincia, per me, un lungo week end di attesa. In serata Carlotta mi manda un sms, con cui mi ringrazia del sostegno che le ho dato durante la settimana. Io le scrivo che non deve ringraziarmi di nulla, e che l’aspetto. Ti aspetto, le ho scritto, proprio così. A questo punto sono sicuro che lei abbia capito il messaggio: evita di farti risentire se pensi che tra noi non possa esserci nulla.

Lunedì mattina, infatti, Carlotta non scrive. È la prima mattina, dopo tre settimane, che non ricevo nulla da lei. Un po’ l’avevo messo in conto, faceva parte del gioco, di quel fifty-fifty racchiuso in ogni gesto e in ogni parola di Carlotta. Ora bisognerà lasciar passare un po’ di tempo, poi potremo riprendere i nostri rapporti professionali come se nulla fosse stato, mi dicevo.

Certo, però, una come lei, quando ti ricapita.

Cecilia, dall’altra parte della scrivania, tifava per me: “Ma no, dai, vedrai che ti scrive. Anche Matteo, prima di mettersi con me, mi ha chiesto un po’ di tempo per pensare, perché c’era di mezzo la sua ex. Dai però ora fammi lavorare, eh…”

Lavoriamo, e la giornata è un’inutile sequenza di gesti che conosco a memoria.

Già mi manca da morire il modo asciutto e furibondo
con cui comunica Carlotta, la sua sgargiante civetteria,
futile e indispensabile, le sue provocazioni gratuite
e la sua femminilità, che anche per e-mail
ti raggiunge sempre e comunque, come un olezzo improvviso.

Tuttavia col passare delle ore riesco a farmene una ragione. Ho accettato la scelta del silenzio. Eppure spero. Spero che lei ci stia pensando, spero che lei sia ancora in dubbio, conscia della condizione che le ho posto. Spero che sia anche solo un po’ combattuta. Spero che stia esitando. Dopodiché pazienza se non mi scrive. Mi basterebbe sapere che sta esitando. Mi scriverà un altro giorno, o forse mai più. Ma la tentazione deve averla avuta, almeno quella.

A metà pomeriggio, finalmente, arrivò la sua mail.

cucinato per un reggimento – un sacco di cipolla

Così recitava l’oggetto. Nel corpo del messaggio mi mandava un bacio di buona settimana. Nient’altro. Anche se quello era proprio il suo stile, non fu come me l’aspettavo. Pensavo che nel momento in cui mi avesse scritto si sarebbe sbottonata un poco di più, che mi avrebbe proposto di vederci, che mi avrebbe detto che aveva fatto la sua scelta. Ecco, ora lo so. Il mio sbaglio è stato tutto lì: nell’essere convinto che lei aveva una scelta da fare. Ci siamo scambiati qualche mail il cui contenuto non merita di essere raccontato, anche perché io ero come ipnotizzato e scrivevo cose di cui non m’importava nulla: dovevo incontrarla e basta, e reclamare quel che la sua scelta comportava. L’ho chiamata la sera stessa, siamo rimasti un’ora al telefono, e tra mille altre cose le ho detto che avevo voglia di vederla. “Quando?” Domani, per le nove? “Va bene, esco da yoga e sono lì”.

L’appuntamento era sui Navigli, al ponte della darsena. Una sera piovosa, con Milano invasa dall’acqua e dalle auto che lasciavano nella loro scia striature di rosso e di giallo. Da lontano ho visto la sagoma di una vecchia imbacuccata che da sotto le falde di un enorme ombrello guardava malinconicamente il letto vuoto del naviglio. Ma che, è lei? Era lei: una mantella impermeabile la ricopriva tutta proteggendo le borse del lavoro e del corso di yoga e rendendola spessa e deforme. Mi sente arrivare e si volta.

Ritrovo i suoi occhi familiari,
la sua bocca irregolare
come un ghirigoro arabo,
i suoi ricci di conchiglia.

Si sporge verso di me per darmi un bacio, il viso si avvicina, e la traiettoria è quella delle labbra. D’istinto mi scosto e ricevo il bacio sulla guancia. Glielo restituisco. Dopodiché esigo che porti in macchina tutto il carico di roba che ha addosso sotto la mantella. Carlotta, un po’ riluttante, obbedisce, scarica le cose nel portabagagli e riacquista la sua fisionomia di giovane donna. Mi accompagna in un ristorante genovese affacciato sul canale, un posto piccolo, un po’ spoglio ma accogliente, con il proprietario canuto e simpatico. Ci siamo solo noi.

Le stringo le mani con la scusa di scaldargliele, la guardo con tutta l’intensità di cui sono capace, cerco di farle capire che sono lì per lei, e che la desidero. Mi chiedo a che serva, visto che lei sa già tutto, e lo ha saputo fin dal primo momento. Ma cercare di eludere la consapevolezza dell’intelligenza e della sensibilità di Carlotta – ormai ne ero cosciente – era per me un modo come un altro di sperare di poter influenzare il corso degli eventi. Per quanto ormai non avessi più dubbi al riguardo, non riuscivo ad accettare il fatto che Carlotta, per me, era un destino su cui io non avevo alcun potere.

Abbiamo parlato dei nostri genitori, quella sera, e dei nostri nonni. E ho capito che la madre di Carlotta deve averle lasciato una profonda cicatrice nello spirito. Enormi aspettative, che generano enormi complessi. E ho capito che la sicurezza che Carlotta ostenta in tutto quel che fa e dice è il più delle volte una montatura. Lei non si ama, per nulla. E ho capito che ne soffre terribilmente. “E poi c’è questo periodo buio…”, mi ha detto a un tratto. Quasi le mancava la voce. Parlamene Carlotta. “Perché?” Perché mi interessa. Forse le ho fatto violenza in quel momento, ma io dovevo sapere in mezzo a cosa mi ero messo, volevo sapere chi era la persona a cui apparteneva il cuore di Carlotta.

“Siamo stati insieme sette anni”, ha esordito, “e quando io gli ho detto che avevo bisogno di un salto di qualità nel nostro rapporto, lui mi ha detto che non era pronto. Allora io, che sono un’impulsiva del cazzo, l’ho lasciato. E ho fatto la cretinata più grande della mia vita. Perché sono ancora innamorata di lui”.

Non so se Carlotta ha sentito lo sdeng
della tegola che mi è caduta in testa.

Ma io ho dato fondo a tutto il mio sangue freddo, ho cercato di simulare autocontrollo e fair play, le ho sorriso. A quel punto giocavamo a carte scoperte, e probabilmente non c’era più nulla da dirsi. Anzi no, forse sarebbe stato meglio dirsi ‘è stato un piacere conoscerti, chissà forse ci incontreremo di nuovo’. Ma io ho voluto forzare la mano. Come una scheggia mi si è infilato nel cervello un pensiero audace, un’idea che era uno sberleffo al destino che Carlotta doveva essere per me. Siamo in regime di libera concorrenza, pensavo, lei ne è innamorata, d’accordo, ma non stanno insieme. Io sono libero di corteggiarla, di inseguirla, di vederla senza dovermi nascondere, senza dover rendere conto a nessuno. Peggio sarebbe stato se mi avesse detto che sta insieme a uno che non ama più. Sai che strascichi, sai i dubbi, sai i ripensamenti? Qui io posso conquistarla, o almeno sono libero di provarci.

Su, è già qualcosa.
Non è poi una tragedia.

Pensando questo pagai il conto e ci ributtammo nella pioggia. Ancora una volta, a furia di chiacchierare, si era fatta mezzanotte passata. Mentre la riaccompagnavo a casa in automobile ci siamo messi a parlare del Carnevale di Viareggio, che cominciava proprio quella settimana. Lei non c’era mai stata e io, mettendo subito in pratica il mio nuovo mantra, la invitai per il week end. I miei hanno una casa in Versilia, le dicevo, possiamo dormire lì. “Davvero andiamo al Carnevaleee?” Lei sembrava entusiasta, aveva già negli occhi i carri e la musica e le migliaia di costumi che affollano i corsi in maschera. “Sì, ma dobbiamo anche andare a Venezia, non te lo sei dimenticato, vero?” Una cosa alla volta, dicevo scherzando. Ma ce l’avrei portata quella notte stessa, a Venezia.

Sotto casa Carlotta non si decideva a scendere dalla macchina. Aveva gli occhi socchiusi, parlava, parlava, parlava sottovoce. E anche io mi sentivo come in una specie di trance. La pioggia batteva mollemente sul parabrezza, e mi diceva baciala. Baciala, mi diceva. Baciala, mi ripeteva. Ad un certo punto mi fu impossibile resistere ulteriormente alla tentazione. Lei stava sussurrando, non so per quale motivo, “…io sono solo una bambina comasca…” e si è ritrovata il mio viso di fronte al suo.

Sono stati baci lunghi, mordicchiati, teneri e animaleschi, i volti che si sfregavano come nasi eschimesi. Baci lenti e strascicati come un abbandono. Baci complici e innocenti come piccole bugie. Ero felice, e anche lei sembrava felice. “Stasera non ti faccio salire. Ti faccio salire la prossima volta, e ti preparo la vellutata di carote”, mi aveva detto tra un bacio e l’altro. Dopo essere scesa dalla macchina ha aperto il portone di casa sua, si è voltata verso di me e mi ha fatto l’occhiolino. Poi è scomparsa dentro il palazzo.

Sono tornato a casa col suo buon sapore addosso. Carlotta sa come di latte fresco, sa di buono. Nel collo, sulle mani, sulle labbra, quel buon profumo è ovunque. E ci ho messo tanto ad addormentarmi, eccitato, sereno e compiaciuto. Che succederà dopo? Non lo so, ma questo bacio deve aver significato qualcosa. Non vedo l’ora di incontrarla di nuovo. A casa sua. Nella sua camera. Nuda… chissà com’è nuda… Ha dei bei piedini erotici, glieli ho visti giocare sul sedile della macchina mentre andavamo a Genova. Le cosce me le immagino come ne parlava Neruda: fantastiche, grosse braccia di dea. Il culetto è sodo e scolpito da anni di nuoto e bicicletta, mi ci gioco la testa. Il seno sfuggente, anche quello voglio vederlo.

Presto, dev’essere presto…

Il giorno dopo vado a una conferenza, e so già che con Carlotta ci sarà qualche rogna. Sensi di colpa, ripensamenti, un po’ di imbarazzo, i soliti problemi che si fanno le ragazze in queste circostanze. Amen, vediamo che succede. Mentre i relatori si alternano sul palco impastando astrusità, io non faccio che pensare a lei, e le mando un sms. Niente di impegnativo: le spiego dove sono e le descrivo quel che mi sta intorno, sforzandomi di metterci un po’ d’ironia. E le dico che profuma di latte. Come previsto, nessuna risposta. Va tutto bene, è comprensibile, mi dico. Torno in redazione e vedo che mi ha mandato una mail in cui mi scrive che è una giornata difficile. Per l’appunto. Ho una voglia matta di chiamarla, ma se lei ha bisogno di tempo per pensare a quello che è successo, la mia sarebbe solo un’inutile, controproducente invadenza. Aspetterò domani. Forse mi scriverà, e se non lo fa la chiamerò io.

L’indomani Carlotta non scrive. All’ora di pranzo la chiamo sul cellulare, ma il telefono suona a vuoto. Questo è preoccupante. Quando torno alla scrivania c’è una sua mail. Carlotta mi ha scritto, solo nell’oggetto:

sono al telefono, tre linee, la quarta è impossibile da gestire

Ahia. Qua butta male, ma non voglio darmi per vinto, non adesso che ci siamo baciati. Devo rivederla, devo parlarle. Lei sicuramente è molto confusa adesso, e io voglio dirle che non ho fretta, che può decidere con calma, e che per me è stato bello. Soprattutto questo: per me è stato bello. Le scrivo, scherzo sulle tre linee e sul suo stacanovismo, e poi le chiedo, con intenzione:

Come stai?

Pochissimi istanti, e la risposta di Carlotta non la scorderò più:

	
	devo aver sbagliato qualcosa
 		
		forse non sono riuscita a trasmetterti il mio pensiero 
		e il mio stato d'animo, che era sostanzialmente: 
		in questo momento l'ultima cosa che voglio
		è essere baciata da chicchessia
 		
		forse ho sbagliato a non scostarmi e a rimanere 
		immobile, ma mi è mancata la capacità di reagire
 		
		ne parleremo magari

14 pensieri su “Carlotta e le altre – quarta parte

      1. ma non fossilizziamoci solo su una storia… nei tuoi commenti hai sempre sottolineato anche le minime tracce di mondo siculo.
        qua ci sta un racconto che, pensa, è interamente ambientato a Palermo. fai un po’ te…!

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      2. Non le so fare le recensioni pallose. A me è piaciuto tutto. Di solito su WordPress non leggo mai articoli cosí lunghi. Mi piace il modo che hai di parlare delle donne, anche se, fossi in loro, mi sentirei un po’ troppo scrutata.

        E non è vero che ho letto a muzzo, solo mi sfuggiva la parola ‘continua’.
        Poi non è vero neanche che ho commentato solo i cannoli… anche i pistacchi di Bronte se ci fai caso 🙂

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      3. lo sanno, lo sanno. qualcuna ha apprezzato, qualcun’altra un po’ meno. infatti l’unica cosa non veritiera di questo racconto sono i nomi delle “altre”, cambiati per questioni di privacy. all’inizio avevo scelto un altro nome anche per Carlotta. ma poi lei quando lo lessi volle che usassi il suo vero.

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