Erano lì le porte
le finestre e le verande.
Erano lì
al confine dello sguardo
dove l’interno incontra
esattamente
l’esterno.
In quel punto esatto.
Bastava un gesto.
Ma il mio star fermo
era più grande di me.
Star fermo/star vivo:
la stessa incomprensione
e paura
fra me e quello stare delle cose.
Star lì
come non essere mai arrivato.
Star lì
come aver visto tutto pienamente.
Star lì
per star lì.
E oltre me stesso
quello che non osavo.
Ah:
ricordo l’ampiezza di quella veranda
i piccoli raggi di luce
nei vetri colorati delle finestre.
Rivedo la dura consistenza della porta
nel serrare il suo segreto. E mi riprendo
lì
nell’immobile gesto che non ho fatto.
Come se potessi
ora
spalancare porte e finestre
per uscire nudo dalla veranda
allucinato e nudo
— un profeta, un pazzo, un santo.
Uscire al vento, al sole, ai temporali,
alle nevi, alle cascate di stelle e di prigioni,
all’odore di gelsomini che stordiscono i cortili.
(Potessi riprendermi le mattine, amico,
quelle mattine perdute in cui non sono mai stato.)
Ma resto
lì.
Quegli spazi
continuano a essere così morti di me
come un corpo che ami
e non tocchi.
Caio Fernando Abreu (traduzione di Emilio Capaccio)
a proposito di rimpianti e scelte non fatte…
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già Pina, che fregatura…
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