Anna si avvicinò al nostro tavolo e io ebbi l’impressione di un uragano che si avesse la ventura di contemplare indenni, da vicino, scoprendone i dettagli, la dinamica della imprevedibilità. Capelli d’ebano che guizzavano vivi sul viso fremente, concluso dal sigillo di una bocca violenta, accusatoria, che a un lampo fosforescente degli occhi verdi si apriva a un riso beffardo come una tempesta di grandine o il nitrito di un cavallo, scoprendo denti insolenti da ragazzo. Si sedette, ricordo, la testa eretta, non proprio antropomorfa, come una scultura arcaica. Se la inclinava indietro, tendeva il busto ad arco e le mammelle seminude miravano come fucili o uno sguardo minaccioso. Era la libertà di quel corpo a sbalordire. Solo più tardi avrei appreso, tra le mille scienze del teatro (e lo insegno ora ai miei allievi), che il corpo umano è provvisto di vari occhi, quattordici per l’esattezza. Due quelli visibili della faccia; due sugli omeri; due all’interno dei polsi; due, i capezzoli; due, le anche; due, la parte interna delle caviglie; due, delle ginocchia. Tutti questi occhi, scenicamente, guardano. La posizione classica dell’arlecchino bergamasco fa testo. Un corpo si apre come un libro, un fiore, guarda le cose che lo guardano e alle quali si rivolge nello spazio. Credo che il busto di Anna avesse più dei sei occhi previsti. Anche seduta, il suo sguardo includeva cose e persone, lambendole sospettoso e imbarazzante come quello di un felino. Della fiera aveva il tempo paziente, regale.
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Quando si trovò a soffrire la staffilata di Rossellini il quale, pur avendola molto amata, abbacinato dalla disponibilità di Ingrid Bergman accesasi di lui per Roma città aperta, l’abbandonò per gettarsi clamorosamente nell’amore per la star americana, Anna fece questo commento singolare: “C’è anche la vergogna di soffrire d’amore per uno che ride coi denti di coniglio”.
Di umiliazioni, ad Anna, se ne inflissero molte dal suo paese; nello stesso momento in cui lo imponeva all’attenzione del mondo con la sorpresa del suo trionfo in Roma città aperta, la stampa italiana dette una prova manifesta e piuttosto indecorosa dell’insicurezza in cui per tanti anni il fascismo l’aveva invischiata. Il giornalismo, non escluso quello di qualità, fu letteralmente spiazzato più dal successo di Anna che da quello di Rossellini e, apertosi il dilemma Bergman, prese immediato partito per quest’ultima, col peso di una vera e propria campagna denigratoria che poneva la “dialettalità” di Anna a un livello dal quale si vantava di prendere le distanze. Alcuni giornali giunsero a chiamarla la Magnoni. C’è da riflettere che si trattava di quella Italia convinta della propria abiezione, che si aspettava fortuna e perdono dal grande Occidente vittorioso; quella della Dolce vita felliniana, dove Mastroianni, potendo stringere a sé Anita Ekberg nel ballo, le dice in trance: “Perché tu sei la mamma, la casa, la famiglia…”. Il sogno cioè, l’approdo.
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C’era una solidarietà dei maschi italiani verso Rossellini, che nemmeno l’invidia per lui riuscì a far scadere: quella esemplata dagli emigranti che scordavano la famiglia, le loro donne brune lasciate incinte di altri bambini bruni, a faticare sui campi altrui, per formarsi nuove famiglie nei paesi di lavoro, con nordiche bionde a loro incomprensibili, cui far dono della propria autorità come una vergine dell’imene allo sposo. Volitivi, violenti, nelle povere case del sud con le donne loro servili e adoranti, si trasformavano in agnelli tosati tra le membra rosee e tenaci di donne che sapevano suggere dal loro sesso il piacere e imporre l’impero, l’esigenza, l’arbitrio del proprio. Da questo oscuro metabolismo di schiavi si muove il disprezzo misterioso che il maschio italiano ha verso la donna italiana dominata che non sia sua madre. È una miseria all’origine di ogni altra, morale psicologica politica istituzionale, e si riflette negli aspetti più abbietti e servili.
Elsa De Giorgi