Anselmo, entrato nella stanza della socioterapia, aveva con stupore notato vicino al muro un pianoforte, liso dagli esercizi, roso dagli anni, ma ancora lindo, simile a quelle vecchiette che ne hanno fatto di lavoro ma ancora la memoria intatta, vispe e contente di essere al mondo.
«Quel pianoforte?»
«È qui da quattro giorni. L’ha comprato il Circolo sociale per pochi soldi. È stato accordato, suona benissimo.»
«Chi avrebbe detto dieci anni fa che qui al sette, alle Agitate, avrei visto un pianoforte?»
«Lo sa della signora Pedretto?»
«No. Chi? La madre della professoressa? Che è successo?»
«Era venuta a trovare la figlia e la Lucia si è messa a suonare. È successo ieri l’altro.»
«Conosceva la musica? Non l’aveva mai detto.»
«Non lo sapevamo neppure noi.»
La Pedretto, la Lucia Pedretto era una malata conosciutissima. Da ventisei anni abitava quel reparto, una cameretta, una cella dalle pareti nude. Da giovane era stata bella e di spiccata intelligenza, a ventidue anni già professoressa di matematica. Figlia unica, i genitori l’adoravano. Il padre medico, anch’egli non comune, appassionato di storia.
Nel colmo del suo splendore Lucia fu colpita dalla malattia mentale. Il pensiero le si frantumò, il discorso divenne incomprensibile, vocabolario triturato e a caso gettate per aria manciate di striscioline; gli affetti scomparvero, l’espressione del volto un lago ghiacciato. E senza un perché, senza alcuna ragione all’improvviso si scatenava in furia, aggrediva, lacerava, vomitava parole volgarissime, da domandarsi come le aveva imparate.
I genitori consumarono i loro risparmi per nasconderla nelle case di cura; e poi si rassegnarono al manicomio. Anselmo per anni ogni mattina, ogni dopopranzo, a volte persino la notte, la intravedeva dallo spioncino della cella, un enigma, freddezza e furore. Per giorni interi, a cominciare dall’alba, seduta nel letto, teneva sulle ginocchia un grosso registro – che il padre regolarmente le portava – e su quello, per pagine e pagine, in silenziosa concentrazione, segnava numeri e numeri, cifre, frammenti di operazioni algebriche prive di ogni bandolo. In altro registro, in righe ordinate e fitte, stendeva una sequela di vocaboli, soldati in fuga, confusione di divise, di reparti, di mostrine.
I genitori ogni tre giorni regolarmente venivano a trovarla. Entravano nella cameretta, si sedevano e rimanevano immobili, zitti, come statue. La figlia continuava a vergare i grossi registri.
Nei primi tempi avevano tentato di parlarle, le avevano sorriso, fatto domande. La figlia si era scatenata in tremende furie.
Ora la guardavano per circa due ore, poi si scambiavano un piccolo cenno, si alzavano, uscivano dalla cameretta. Il padre all’ingresso aveva depositato su una mensola i grossi registri.
Gli anni trascorrono. I manicomi, da secoli bui e immobili, castelli impenetrabili, aprono spiragli, inferriate si sminuzzano come denti marci, pareti crollano giù. Sono arrivati nuovi medicamenti e insieme la fiducia, la speranza, un corteo di nuovi metodi, soffi, venti di libertà.
Anche la Pedretto viene toccata da questa nuova era e non guarisce no, ma è come misteriosamente udisse il nuovo clima. Un giorno lei stessa domanda di uscire dalla cameretta e si affaccia al corridoio, si avvicina alle altre malate. Poi si mette a cucire, entra nella sala di socioterapia.
I genitori assistono a questa modificazione. Sono pratici ormai, non si illudono, lunga esperienza, ripercosso dolore. È un progresso solo esterno, in realtà lo stesso gelo sull’orlo di esplodere. Continuano a visitare ogni tre giorni la figlia. Forse più perversa la loro pena.
Ed ecco il pianoforte. Nessuno, né le malate né le infermiere né il medico sono a conoscenza che la Lucia sa suonare il pianoforte.
La madre per caso si presenta alla visita da sola. Al solito si siede davanti alla figlia, ora nella stanza di socioterapia. La figlia china su una tela.
D’un tratto la Lucia posa il cucito, si alza, si dirige al pianoforte, accomoda lo sgabellino, si siede.
La memoria freschissima. Erano passati ventisei anni. Il primo tocco su i tasti fu di straordinaria grazia. La madre seguiva le mosse della figlia, anche lei musicista. Suonò per mezz’ora, sembrava raccontasse. Per le guance della madre scendevano silenziose le lacrime.
D’un colpo la Lucia si interrompe, sbatte il coperchio, si alza, nei tratti una bieca luce. Sembra sull’orlo di una furia.
La caporeparto continua a sussurrare i particolari. Lucia, seduta a pochi metri, china sul cucito.
Anselmo le si avvicina:
«Posso ascoltare anch’io la sua musica?»
Lentamente la Pedretto alza il viso. Gli occhi sanno di fango invernale, le ombre del viso percorse dai lampi dell’ira. Risponde acre:
«No!»
«Perché?»
«Per il negativo.»
«Qualche negativo?»
La voce di Lucia si fa violenta, percorsa da una acuta impazienza, dalla rabbiosa delusione:
«Ho detto per il negativo. Il negativo. Chiaro, no?» e sembra aggiunga: «Parlo mica con i morti?».
Anselmo mormora una scusa. Ella ancora più irata: «Il negativo, il negativo!» urla.
Mario Tobino