Sulla soglia di un’infinita pienezza

 


Dopo più di due ore di quella corsa, salì verso di noi, nel silenzio, l’abbaiare lungo di un cane. Uscimmo dalle argille, e ci trovammo su un prato in pendio, e sul fondo ci apparve, tra terreni ondulati, il biancore della masseria. Nella casa, lontana da ogni paese, il mio compagno e il fratello malato abitavano soli con le loro due mogli e i bambini. Ma sull’uscio ci aspettavano tre cacciatori di Pisticci, che erano arrivati il giorno avanti per cacciare le volpi verso il fiume, e s’erano fermati per assistere il loro amico. Anche le due donne erano di Pisticci, e sorelle: alte, con grandi occhi neri e visi nobili, bellissime nel costume del loro paese, con la gonna lunga a balze bianche e nere, e il capo avvolto da veli e da nastri bianchi e neri, che le facevano assomigliare a strane farfalle. Mi avevano preparato i cibi migliori, il latte e il formaggio fresco, e me li offrirono appena arrivato, con quella non servile ospitalità antica, che mette gli uomini alla pari. Mi avevano aspettato tutto il giorno, come un salvatore: ma mi accorsi subito che non c’era più nulla da fare. Era una peritonite con perforazione, il malato era ormai in agonia, e neppure un’operazione, se anche io avessi saputo e potuto farla, l’avrebbe più salvato.

Non restava che calmare
i suoi dolori con qualche iniezione
di morfina e aspettare.

 

La casa era fatta di due camere, che comunicavano per una larga apertura. Nella seconda stava il malato, col fratello e le donne che lo vegliavano. Nella prima stanza il fuoco era acceso in un grande camino; attorno al fuoco sedevano i tre cacciatori. Appoggiato all’angolo opposto, mi era stato preparato un letto, altissimo e soffice. Io andavo ogni tanto dal malato, e poi rimanevo a conversare a bassa voce coi cacciatori accanto al fuoco. Quando fummo nel mezzo della notte, mi arrampicai sul mio letto per riposare, senza spogliarmi.

Ma non presi sonno.

 

Restavo sdraiato lassù, come su un palco aereo. Appesi al muro, tutt’intorno al letto, erano i corpi delle volpi uccise di fresco. Sentivo il loro odore selvatico, vedevo i loro musi arguti all’ondeggiare rossastro delle fiamme, e muovendo appena la mano, toccavo il loro pelame che sapeva di grotta e di bosco. Dalla porta mi giungeva il lamento continuo del moribondo: – Gesù aiutami, dottore aiutami, Gesù aiutami, dottore aiutami, – come una litania di angoscia ininterrotta, e il sussurro delle donne in preghiera. Il fuoco del camino oscillava, guardavo le lunghe ombre muoversi come mosse da un vento, e le tre figure nere dei cacciatori, coi cappelli in capo, immobili davanti al focolare. La morte era nella casa: amavo quei contadini, sentivo il dolore e l’umiliazione della mia impotenza. Perché allora una così grande pace scendeva in me? Mi pareva di essere staccato da ogni cosa, da ogni luogo, remotissimo da ogni determinazione, perduto fuori del tempo, in un infinito altrove. Mi sentivo celato, ignoto agli uomini, nascosto come un germoglio sotto la scorza dell’albero: tendevo l’orecchio alla notte e mi pareva di essere entrato, d’un tratto, nel cuore stesso del mondo. Una felicità immensa, non mai provata, era in me, e mi riempiva intero, e il senso fluente di una infinita pienezza.


Carlo Levi

2 pensieri su “Sulla soglia di un’infinita pienezza

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