Eppure, quando venne la prima notte (fu, credo, proprio la notte successiva alla partenza di Jane da Roma) mi attendeva la delusione. Delusione che, a ripensarci, mi sorprese soltanto per questo: che non mi sorprese affatto. Non è un gioco di parole, e mi spiego.
Fino al momento dell’ultimo spasimo io mi ero illuso, tutto quel giorno, dal mio risveglio quando tra le imposte socchiuse vidi il sole e udii il confuso rumorio di Roma, e il pomeriggio quando telefonai a Dorothea, e la sera quando andai con lei a pranzare in una trattoria di Trastevere, e durante il lento ritorno in carrozzella a casa, e mentre aprivo il portone, e stringendola alla morbida vita nell’androne buio, e quando entravamo in casa e nella camera impregnata del suo profumo caldo amaro e volgare, e quando ci spogliavamo nudi, e mi gettavo sul letto e sentivo finalmente la sua pelle contro la mia, mi ero illuso che quel piacere doloroso e senza confini, dovesse, appunto, non finire più; ma prolungarsi e variare, attraverso le pause e la rilasciatezza che avrebbero seguito ogni volta l’apice del piacere, tutta la notte e tutto il giorno appresso e, perché no? tutta la vita. Fino a quest’ora che sta per scoccare, mi dicevo convintissimo, fino a questa notte d’amore che sta per cominciare, che è già cominciata, non ho mai fatto la prova. Ogni volta, finora, appena raggiungevo con Dorothea la soddisfazione, immediatamente ero ripreso dal pensiero di Jane; ma non da un pensiero vago di Jane, bensì dal pensiero preciso che dovevo al più presto rientrare in albergo perché Jane poteva telefonarmi. E nell’ansia, nella preoccupazione, balzavo tosto dal letto, mi rivestivo, pagavo, salutavo, uscivo, correvo all’albergo. Così non avevo mai avuto modo di far la prova: se anche l’anima di Dorothea m’interessasse, se anche per lei io fossi capace di qualche tenerezza; se la passione tutta carnale che avevo per lei potesse colorarsi di naturale umanità e amicizia; se con lei, insomma, mi riuscisse anche di parlare. Perché, prima, non era mai un parlare, ma, da parte mia, una specie di monologo implorante e adoratore, anche se le offrivo una sigaretta o un bicchier d’acqua; e, da parte sua, per me, un altro monologo, il fraseggio solitario di un idolo, che mi suonava come un’affascinante canzone, anche se chiedeva soltanto un bicchier d’acqua o una sigaretta. Il premere, frattanto, sotto la tavola, della sua gamba contro la mia, o della punta del suo piede sul mio, elettrizzava quei doppi monologhi, come perfino il duro legno dell’inginocchiatoio, o il marmo dell’altare, trasforma la sofferenza del credente che prega in una gioia ineffabile.
E neanche dopo era più un parlare. Dopo, erano frasi mozze, pratiche, più brevi possibili: come se avessi voluto cancellare l’esistenza stessa dell’idolo.
«Questa volta ti do soltanto cinquemila lire perché non ho ancora preso lo stipendio», oppure: «Domani non ci vediamo perché vado a Napoli», oppure: «Non alzarti, non importa, mi lavo all’albergo» eccetera. L’idolo, da parte sua, era intelligente: fumava, immobile, sul letto, assolutamente zitta; e, anche se faceva molto caldo, copriva subito il proprio corpo nudo fino al mento, come intuendo il mio desiderio improvviso di vederla sparire.
Mario Soldati