Sapere il passato e il futuro di ogni destino


La donna, di professione maestra elementare, si chiamava Ida Ramundo vedova Mancuso. Veramente, secondo l’intenzione dei suoi genitori, il suo primo nome doveva essere Aida. Ma, per un errore dell’impiegato, era stata iscritta all’anagrafe come Ida, detta Iduzza dal padre calabrese.

Di età, aveva trentasette anni compiuti, e davvero non cercava di sembrare meno anziana. Il suo corpo piuttosto denutrito, e informe nella struttura, dal petto sfiorito e dalla parte inferiore malamente ingrossata, era coperto alla meglio di un cappottino marrone da vecchia, con un collettino di pelliccia assai consunto, e una fodera grigiastra che mostrava gli orli stracciati fuori dalle maniche. Portava anche un cappello, fissato con un paio di spilloncini da merceria, e provvisto di un piccolo velo nero di antica vedovanza; e, oltre che dal velo, il suo stato civile di signora era comprovato dalla fede nuziale (d’acciaio, al posto di quella d’oro già offerta alla patria per l’impresa abissina) sulla sua mano sinistra. I suoi ricci crespi e nerissimi incominciavano a incanutire; ma l’età aveva lasciato stranamente incolume la sua faccia tonda, dalle labbra sporgenti, che pareva la faccia di una bambina sciupatella.

E difatti, Ida era rimasta, nel fondo, una bambina, perché la sua precipua relazione col mondo era sempre stata e rimaneva (consapevole o no) una soggezione spaurita. I soli a non farle paura, in realtà, erano stati suo padre, suo marito, e piú tardi, forse, i suoi scolaretti. Tutto il resto del mondo era un’insicurezza minatoria per lei, che senza saperlo era fissa con la sua radice in chi sa quale preistoria tribale. E nei suoi grandi occhi a mandorla scuri c’era una dolcezza passiva, di una barbarie profondissima e incurabile, che somigliava a una precognizione.

Precognizione, invero, non è la parola più adatta, perché la conoscenza ne era esclusa. Piuttosto, la stranezza di quegli occhi ricordava l’idiozia misteriosa degli animali, i quali non con la mente, ma con un senso dei loro corpi vulnerabili, «sanno» il passato e il futuro di ogni destino. Chiamerei quel senso – che in loro è comune, e confuso negli altri sensi corporei – il senso del sacro: intendendosi, da loro, per sacro, il potere universale che può mangiarli e annientarli, per la loro colpa di essere nati.


Elsa Morante

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