Goccia di lago


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Dissolversi. Guardo le gocce dissolversi nell’acqua che le accoglie con lievi increspature. In fondo, mi piace pensare, è acqua nell’acqua. E per quanto un bicchiere sia un oggetto di modeste dimensioni, ogni goccia che si perde sulla superficie del suo contenuto lo rende una meravigliosa distesa lucida, un sorso sconfinato, un fiotto lunghissimo da ingurgitare. Ci sono dei momenti in cui quell’acqua, sospinta lievemente dalle gocce che stillo con gli occhi a fessura, aprendosi a cerchi concentrici mi fa involontariamente venire in mente il mio lago. E, di conseguenza, io penso a Torno.

***

Vista dal lago, Torno è una corrente di case che sembrano scivolare dai monti. È una vecchia macchia grigia, magenta e ocra che si diffonde come una lunga carezza sull’acqua. Alle spalle del borgo che sonnecchia all’ombra di alberi enormi, panciuti e traboccanti di foglie nella bella stagione, scorrono immobili i costoni delle montagne simili a pannelli sovrapposti; rugose scenografie teatrali si intersecano tra loro, trovano in quei filari di rami chiari e contorti e di sempreverdi la cerniera dell’essere sfondo solidale alla scena.

Più da vicino, Torno è un organismo di pietra. Non ha strade, ma vicoli di persiane e porte sprangate che la sera pulsano alla luce dei lampioni in ferro battuto. Non ci sono svolte, o slarghi o piazze, ma solo accenni di direzione, la necessità espressa male di essere più o meno distanti dal lago.

Ed ecco che il paese è un saliscendi
di anfratti, archi, scale buie che sembrano
portare a nessuna destinazione.
È il dubbio del bivio, quasi il prurito
di una scoperta da farsi.

Se la sera Torno è l’incanto di un silenzio bianco, gelido, marmoreo, sfiorato solo dal respiro dell’acqua che in alcuni momenti ricorda un lento susseguirsi di vetri infranti e lontani, di giorno è un rado brulichio di persone, di bambini con la palla, di animali furtivi e di pacchi della spesa che gettano la loro ombra in movimento sul mosaico del selciato. E questo loro infrequente incontrarsi è un sussurro dolce e vitale, ha un che di gioioso. Si dissolve nelle facce serene e indaffarate del saluto il fastidio della quotidianità.

Ma ciò che più sorprende è il modo in cui il paese si incontra con il lago. Non c’è soluzione di continuità tra ciò è calpestabile, duro, pieno di materia e d’attrito, e il frangente dell’onda che a malapena si increspa sfiorando la riva. A prima vista, le facciate delle case sono un invalicabile muro variopinto. Sembrerebbe che si acceda al lago soltanto da una darsena poco più grande di una piscina, uno specchio d’acqua che vuol essere il sagrato di una chiesetta gotica affacciata a benedire le vele mute, o a diffondere un antico monito, o a riposare nella foschia senza disturbare alcunché. Lì attorno ci sono innumerevoli punti di approdo; pullula di barchette coloratissime, sgargianti, eppure malinconiche, perché sembrano abbandonate. Parapetti e lampioni si incontrano in romantiche geometrie di pietra, punti di osservazione che ritagliano le masse immobili dei monti e quelle semoventi del lago in inverosimili cartoline d’altri tempi. Tutto questo a prima vista.

Decidendo invece di approfondire il mistero di Torno c’è da rimanere quanto meno perplessi di fronte all’intrico di capillari, alveoli, cunicoli che inavvertitamente dal cuore del paese, celato come in un cofanetto di calce e tegole, sfociano dopo una rapida discesa nelle acque placide del Lario. Allora la fantasia si accende, l’immaginazione si lascia scivolare lungo quei declivi resi lisci dal tempo e dalle intemperie, ne costruisce la storia e l’uso plausibile, perché così come sono sembrerebbero fatti solo per stupire, e zittire, e intenerire chi non li conosce e tanto meno se li aspetta. Scivola l’immaginazione.

Ma la sensazione quanto mai reale
di perdere l’equilibrio,
di percepire il corpo accantonarsi
lungo le pareti, quasi rotolando verso il lago,
induce a esplorare,
a ispezionare minuziosamente
quegli anfratti bui,
spinge a toccarli, ad appoggiarvisi
per riuscire a rimanere in piedi e a non vacillare
alla rincorsa della linea dolce
ma irrequieta della superficie dell’acqua.

Acqua che si spalanca allo sguardo in maniera del tutto inaspettata non appena si imbocchi una di queste prodigiose, brevissime gallerie. Il giorno qui è uno spettacolo accecante di contrasti cromatici, la notte è sublime. Perché i bagliori provenienti da tutte le case, le strade, i lampioni che cingono il lago con le loro discrete irradiazioni non fanno che danzare in milioni di gocce sui brandelli del gigantesco specchio attraverso gli scorci della via. E anche se non c’è vento, anche se la notte è serena, dolce e chiara, l’acqua pare una tempesta di scintillii. Nonostante ogni cosa sia in realtà immobile, questo furibondo luccicare rende il lago una superficie in moto perpetuo, una lastra incandescente che scivola in continuazione, e a velocità vertiginosa, sotto la base dei monti, sotto i porticcioli e le prue delle barche ciondolanti. Si sentono soltanto lievi cigolii. Il tempo così si deforma, sospinto, compresso dalle miriadi di fronti d’onda che si estendono per ogni direzione.

Ci sono stati improvvisi risvegli
in cui questo luogo – o il suo ricordo –
mi è parso pura fantasia,
un lungo istante immaginato
e null’altro.

Ma questa è una dimensione reale, la dimensione di un segreto, e non può che svelarsi attraverso le vie di Torno, in quell’ora del giorno in cui i colori delle cose si accendono, quasi emanano luce propria proiettando ombre sconfinate verso la montagna. I rami degli alberi, la torre del campanile, le lanterne sul molo diventano profili che riflettendosi nella corrente del lago sembrano tessere tra loro, come fossero lacci sottilissimi, le tinte fredde dell’acqua striata d’ottanio con l’alone tiepido dell’imbrunire sui monti. Per tutti gli abitanti è l’appuntamento giornaliero con un ozio solitario, prima del calore della casa, prima del camino e del divano, il momento in cui sorge il deserto dei vicoli ogni minuto più bui, più obliqui, più ripidi.

Investite dalla luce straziante del tramonto, le bambine si dissolvevano una ad una al richiamo delle mamme sporte da qualche finestra invisibile; avevano disegnato con dei gessetti una griglia di linee bianche sopra le piastrelle lisce del pavé, e continuavano a saltarci dentro e fuori con tanta foga e convinzione che pareva fosse quello l’unico scopo della loro esistenza. Attorno a loro, il resto scorreva con tutta la sua normale tranquillità. Gli scafi dei battelli che lentamente facevano la loro spola da una riva all’altra del lago si lasciavano alle spalle lunghe strisce di bianco, e inviavano messaggi di luce rispondendo ai raggi di un sole in bilico sui monti. Un sommesso ronzio. Dalla casa di riposo, poco più in là, arrivavano rumori di mestoli, stoviglie, sedie trascinate sul pavimento. L’ora prematura della cena. Modulazioni onnipresenti, i passeri cinguettavano oltre i muri dei giardini, sui rami degli alberi e sulle ringhiere nere cui si appendeva un rado manto di foglie dalla sagoma seghettata.

“Ma non devi fare così! Non vedi che vai con le scarpe sulla linea…? Ora ti faccio vedere io.”

Simona, per l’ennesima volta, eseguì tre balzi incrociando i piedi, culminando la piccola evoluzione, quasi una piroetta nel suo equilibrio minimo, in un sorriso soddisfatto. “Visto? I piedi stanno dentro, prima hai perso!”

A Marta tremavano le labbra dal disappunto, ma sapeva che non avrebbe avuto sostegno da nessun altra delle presenti se pure avesse provato a protestare. Quindi annuì e umilmente ripeté l’esercizio come le era stato mostrato, stavolta impegnandosi a mettere i piedi bene dentro il tracciato del gioco. Un istante di concentrazione e si lanciò sulla griglia: non si mosse male, solo forse in modo un po’ meccanico, nell’ansia di controllare al millimetro le anche e i ginocchi, per imitare il gesto della severissima amichetta. Primo, secondo, terzo salto con le suole delle scarpe ben piantate al centro dell’ultimo riquadro. Sì!

“No-o! Ancora fuori, basta stavolta sei eliminata!” Simona lo aveva detto con tanta perentorietà e sicurezza che nessuno avrebbe potuto contestarla; e già si era voltata verso le altre ragazzine a scegliere la prossima candidata alla sfida, le braccia conserte e il musetto duro. Nel frattempo era cresciuta una specie di smania nella combriccola assiepata lì attorno: chi stava con le spalle schiacciate contro la parete esterna di una casa, gli occhi fissi sui passi della piccola tiranna, a tormentarsi pian piano la schiena con la superficie ruvida della muratura; chi, facendo finta di dondolare su di un muricciolo, tendeva in realtà le orecchie a quanto stava succedendo tra le compagne, chi ancora in maniera palese aspettava di sentir chiamare il proprio nome fremendo sul posto col solo scopo di conquistare lo sguardo e l’approvazione di Simona.

Forse fu per premiare tanta dedizione che la bambina si fermò gambe divaricate, pugni sui fianchi, proprio davanti a Bianca, con un’espressione assai più dolce di quella che aveva riservato fino a quel momento a Marta e alle altre. Puntò il ditino contro il naso dell’amica e, quasi accennando un sorriso, si rivolse a lei:

“Adesso lo fai tu. Ma bene, eh?” Si mise a parte con la stessa verve di un microscopico soldato in salopette e lasciò la scena a Bianca. Che ostentava sicurezza nel muovere dritte falcate coi suoi sandaletti chiusi sul tallone. Dopotutto la campana l’aveva disegnata lei. Certo, su precisa indicazione di Simona, che si era premurata di dirigerla puntando per terra, di volta in volta, un lungo ramo secco. Ma sentiva di aver ben chiare in testa le proporzioni e le distanze, e sapeva che delle sue gambe c’era da fidarsi, così che tra sé e sé si scopriva in grado di farcela senza troppi problemi.

Si mise attenta sul punto di partenza, gli occhi delle altre puntati su di lei, a due a due colmi di diverse attese, pronta per andare. Ma fu come distratta e poi rapita dalla sagoma della sua ombra schiacciata sotto i raggi del sole, un’ombra che si estendeva per terra piegandosi, all’altezza del collo, su di un muro di pietra lì alla sua sinistra. Era quasi uno stupore: riconosceva sul suolo l’orma dei capelli lunghi sulle spalle. Con la coda dell’occhio, sulla superficie irregolare della parete, intravedeva la punta del naso prevaricare la linea ondulata del viso e, verso la banda sconfinata e scura del busto e delle gambe, si accorgeva con imbarazzo della crescente forma del seno sul petto. Il disegno delle braccia ciondolava inconsapevolmente comparendo sparendo dai bordi dei fianchi. Contorse la bocca in una smorfia e decise di non soffermarcisi più.

“Bianca, dai, vai!”

“Bianca, salta!”

“Salta, Bianca!”

L’incitamento la riscosse. E subito, senza perdersi in altre esitazioni, gettò il suo sassolino nella prima casella. Si piegò sulle ginocchia ondeggiando con maggiore convinzione le braccia: spiccò il primo salto.

A piedi uniti giù per il secondo contatto,
una piccola giravolta di caviglie, il tempo
di coordinarsi per posizionare piede destro
e piede sinistro e tutto si era esaurito
con la testa di Bianca già voltata a cercare l’approvazione
nello sguardo delle amiche.
Poi un’occhiata a vedere come stavano le gambe
sulla griglia per terra.
Dentro, senz’ombra di dubbio dentro!

Il silenzio imbarazzato delle altre, l’espressione incredula e risentita di Simona, l’immediata solidificazione del suo presentimento dentro sé avevano già svelato tutto. Aveva fallito. “Non sono uscita! Non sono uscita! Vedete?” In effetti l’evidenza dei suoi sandali illuminati dal dito puntato diceva che ogni cosa era andata come sarebbe dovuta andare, e che la ragazzina aveva compiuto l’esercizio più che correttamente. Ma ciò che contava, questo fu chiaro a tutte, era il verdetto che avrebbe emesso Simona, e l’attesa imposta al gruppo nel prendere la parola la faceva capire lunga su cosa pensasse del salto di Bianca.

Simona si dette una mossa e cominciò subito a scuotere la testa. Non c’era in realtà bisogno di dire nulla, ma volle infierire: “Guarda che al secondo salto hai messo il piede fuori, ora ti faccio vedere…” e si diresse titubante verso la griglia di gioco. “Ecco qui, vedi? La linea è un po’ cancellata qui” e indicò con il piede, strofinandolo contro il pulviscolo bianco sul ciottolato, “Qui te ti sei appoggiata e sei andata fuori.”

“Non è vero, sei tu che la stai cancellando, io…” ma si morse la lingua, visto che di fronte a lei c’erano le facce inespressive delle compagne che ora, nella loro apatia, pretendevano giustizia. “Io…” Al diavolo! “Ma perché devi sempre dire tu se va bene o non va bene? Non ho sbagliato! Non ho sbagliato! Sei tu che hai cancellato la linea! Diteglielo anche voi…”

Inamovibili, naturalmente. Ci volle un attimo. Fu allora che scelse di reprimere un’altra volta il pianto e si rimise al suo posto senza sperare di essere raggiunta e consolata. Le altre invece tornarono subito al gioco orchestrato da Simona.

Anche quella sera Torno l’accolse sorreggendola con i muri umidi e irregolari dei suoi vicoletti, passo a passo nelle pozzanghere di luce che si aprivano là dove il sole batteva ancora. Si sentiva triste: aveva provato a essere amica di Simona con la dolcezza. Aveva tentato di condividerne piccoli segreti idioti e fantasie improbabili, si era sforzata di piangere con lei quando in realtà non ne sentiva alcun bisogno. Poi con la strategia dell’alleata, della fedele sgherra, ne era diventata un’inseparabile compagna di cattiverie ai danni delle altre, che non sapevano fare nulla se non subirne il fascino. Ma Simona aveva vinto anche su di lei, perché lei non era riuscita a farsi volere bene come desiderava.

Bianca avanzava anzi ciondolava attraverso stradette che sembravano ciondolare pure loro, abbattute sgretolate dal tramonto che si squagliava sul lago. E decideva passo dopo passo, schiacciando il suo dolore, che anche quella sera, a tavola, sarebbe rimasta in silenzio se qualcuno le avesse chiesto come era andata la giornata, come la scuola, come con la maestra, come con le amiche.

Quali amiche.

Bianca camminava tra le strettoie muovendosi inconsapevolmente verso casa, senza neanche tenere la testa sollevata, come faceva di solito, a cercare tra le sbarre degli stenditoi, le tegole e le grondaie ciò che rimaneva del cielo di fine estate. Si sforzava di pensare che probabilmente quel momento era soltanto una goccia nel mare dei suoi giorni, che dopo tutto non c’era bisogno di prendersela così tanto per l’ennesimo capriccio di Simona. E le altre che si adeguavano? Loro contavano poco o niente. Lei, piuttosto, non si era piaciuta affatto. Era così soprappensiero che nemmeno si era accorta di essersi fermata, priva di forze, con la spalla destra appoggiata a un muro d’angolo, con il lago, un abisso, che si spalancava oltre lo spigolo di pietra. Provò freddo. Istintivamente si toccò i seni, come in un abbraccio, sentendo con un lungo brivido riaprirsi quella ferita che le aveva svelato il suo nuovo corpo, e cercò ancora di farsene una ragione. Poi rialzò la testa e riprese a camminare.

“Mia moglie affoga! Mia moglie affoga!” fu il grido che all’improvviso scagliò una strada laterale. Bianca ne fu solo per un attimo sorpresa: poi ricollegò la voce alla figura del Vecchio ubriacone e trattenne qualsiasi riflesso. “Venite, aiutatemi!” Si girò. Lo vide dietro di sé sbracciarsi in fondo alla via, investito da una cascata di luce arancione. Sembrava uno scimmione rossiccio ricoperto di stracci. Un po’ di ripugnanza, un po’ di pena. Ma la ragazzina tirò avanti, essendo fin troppo abituata alle smanie di quel pazzo. E poi le era sempre stato detto di non avvicinarsi troppo a lui, ché quando era in quello stato poteva essere pericoloso.

Era quasi davanti al portone di casa, con le urla del matto che ancora risuonavano per mezza Torno, e stava già rigirandosi le chiavi tra i polpastrelli, quando si accorse che c’era qualcuno appoggiato alle pietre del muro dell’ingresso.

“Ciao Lucio”, fece lei con noncuranza, a testa bassa, ma aveva una paura folle che lui riuscisse a intravedere la sua faccia paonazza, che arrivasse a sentire i battiti del cuore che le sfuriava nel petto, pompando ettolitri di adrenalina in ogni fibra del suo corpo.

“Oh, Bianca, finalmente” Allora non era lì per caso. Adesso, con la scusa di dargli retta, poteva vederlo, guardarlo, scrutarlo nei minimi dettagli, far scorrere gli occhi sul suo viso, sulle sue labbra carnose ma sempre screpolate, sul naso piccolo e arrogante, sulla riga appena accennata dei capelli castani, ondulati e luminosi.

Era tutta un bollore dietro le orecchie.

“E che cosa volevi?”, disse in un solo fiato, sempre simulando un fare distratto, ma con una forzatura eccessiva. Lui, un pallone infangato sotto al braccio, i calzoncini fino alla coscia liscia e tesa, e le scarpe da tennis slacciate, ancora non si muoveva, anzi era titubante. Poi, con un sorriso ingenuo non poté fare a meno di esclamare: “Che tettone che ti sono venute!” Il pazzo, a milioni di anni luce di distanza, continuava con le sue imprecazioni. Lei odiò una volta di più il proprio corpo. Ma Lucio aveva preso coraggio.

“Tu sei nella stessa classe di Simona Bertoni.” Ora la guardava negli occhi, e lei se li sentiva trapanare, anche perché aveva già capito tutto. “Sì, ma…” Lui le si avvicinò di scatto, quasi facendola sussultare. “Ti ha mai detto se le piaccio? Pensi che si metterebbe con me?” La testa le ronzava, riusciva a sentire solo il metallo delle chiavi che stringeva con sempre maggiore energia nelle mani, fin quasi ad imprimersele nella carne, e le gambe che le venivano meno, e un bruciore allo stomaco che l’assaliva. Dalla strada dietro di loro cresceva un insolito brusio. “Ma non lo so, Lucio, chi piace a Simona, non lo so proprio, e poi perché lo chiedi a me?”

Non riusciva più a trattenere le lacrime,
ed era certa che lui se ne fosse accorto.

“E non potresti chiederglielo? Insomma, vedere se ci pensa mai, alla fine tu sei sua amica, magari con te ci parla. Oh: senza farle capire che te l’ho detto io, mi raccomando.” Le stava a un passo, quasi sfiorandole il viso. Ne sentiva il fiato, il sudore.

“Ma che succede di là?”

Lucio già guardava oltre mentre lei era ancora frastornata e desiderava solo chiudersi in casa come un opossum in letargo. Così fece per infilare le chiavi nella toppa, ma lui dandole uno spintone sulla spalla la sorpassò per correre verso l’origine del vociare, che ormai riempiva distintamente tutta la strada. Svogliatamente, o forse irresistibilmente, gli si mise dietro, e andò incontro al drappello di curiosi che aveva invaso l’imbocco di una delle gallerie che portavano al lago. Si distinguevano chiaramente dei singhiozzi. Era il Vecchio ubriacone, buttato a terra.

“Ma che è successo qui?” Lucio interrogava un po’ tutti con una visibile eccitazione sul volto, avendo intuito che qualcosa di grosso doveva esserci stato, visto che in paese non capitava mai nulla di nulla, e tutta quella gente affacciata sul lago non la si vedeva nemmeno a Natale, quando prima della messa di mezzanotte la quasi totalità della popolazione di Torno si riversa nei due o tre bar della darsena a prendere un caffè o un cappuccino, o anche una grappetta, per riscaldarsi e darsi una svegliata.

“E’ affogata la moglie del Vecchio!”

“Si è buttata nel lago!”

“Ma ce l’ha buttata lui?”

“Non si sa. Questo non si sa.”

“Ma dov’è, si vede?”

“Eccola, là, che galleggia, povera crista!”

Il corpo della donna sembrava adagiato sul lago, a una decina di metri dalla riva, in un punto dove il sole aveva già smesso di battere.

Con un movimento lento e grazioso
le braccia tracciavano
piccoli disegni sotto il pelo dell’acqua,
e lo sciacquio delle onde
accarezzava con insistenza
la camicia da notte che aveva indosso,
facendola sembrare un enorme,
armonico respiro.
Aveva il volto gonfio e bianco
della morte per affogamento.

Dietro di lei nel riflesso della distesa lucida cominciavano a brillare i lampioni dei paesini dirimpettai, si formava come ogni sera il ricamo dei bagliori dentro la sagoma delle montagne sempre più scure. Veniva freddo. Venivano i brividi.

Lucio si intratteneva sul luogo della tragedia come fosse stato un giovane reporter a caccia di uno scoop, ed era combattuto se rimanere lì in attesa di qualche novità, di qualche improvviso colpo di scena, oppure se tornare al campetto di calcio per chiamare gli altri e metterli al corrente della cosa. Ma si stava facendo buio, e per nulla al mondo si sarebbe perso l’arrivo della motovedetta della polizia con le sirene accese. Agli altri avrebbe raccontato tutto il giorno dopo. Allora gli venne in mente Simona, e quindi si ricordò di Bianca. Non vedendola più dietro di sé cominciò a cercarla prima con lo sguardo, poi a tentoni, chiedendo ripetutamente permesso per farsi largo tra quella che era diventata una piccola folla.

“Ah, eccoti, ma che stai facendo lì? Hai visto che roba?”

“Ho visto.”

“Che impressione. La moglie del Vecchio… mi sa proprio che è stato lui. C’era da immaginarselo che prima o poi l’avrebbe fatta grossa. No?”

Ma Bianca non rispondeva. Se ne stava accucciata, le mani strette intorno alle gambe, seduta sul bordo dell’approdo, con la faccia tra le ginocchia, a pochi centimetri dall’acqua. Al suo fianco, un paio di ciabatte consunte, abbandonate l’una accanto all’altra in una perfetta simmetria. Era come se qualcuno le avesse lasciate lì prima di coricarsi nel letto. Davanti alla giovane donna il lago scintillava delle luci incandescenti della sera. E lei ci si specchiava l’anima. Ne poteva sentire l’aroma salmastro, che aveva imparato a comprendere e ad amare col tempo, mischiato all’ancora sconosciuto odore del sangue che proveniva dal suo corpo.

4 pensieri su “Goccia di lago

  1. bellissimo, caro amico! descrizioni poetiche ed evocative, sembra di vederlo lì davanti agli occhi , il lago. i personaggi sono così veri, con la loro umanità imperfetta e palpitante che è come fossero a pochi metri, quasi ne senti l’odore, il sudore, il fremito… e la tragedia, nella sua banale concretezza, rende l’idea dell’assuefazione, dell’indifferenza e del pregiudizio. il finale ha due volti: la vita che sboccia e la vita che svanisce. Davvero un bel racconto. Mi piacerebbe ribloggarlo: dimmi tu se posso

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