La scoperta di Dio

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Erano ormai duemilasettecentotredici giorni, ventuno ore e quarantasei minuti che Peter Kuhn viveva come un prigioniero in quella stanza. Se qualcuno, sette anni prima, gli avesse mai detto che fine avrebbe fatto – contare i minuti in una cella travestita da monolocale dotato di tutti i comfort – per come era fatto lui si sarebbe ammazzato seduta stante. E quante volte, allo scoccare di ogni minuto, aveva pensato di farla finita. Là dentro però non c’era nulla di adatto allo scopo. Al punto che nei primi mesi della prigionia, dopo aver capito come erano destinate ad andare le cose, Peter Kuhn aveva persino provato a togliersi la vita trattenendo il respiro o mordendosi i polsi. Ma l’istinto di sopravvivenza prendeva il sopravvento, e tutto ciò che poteva fare era riempirsi la faccia di pugni e schiaffi, piangendo di dolore e frustrazione. Una volta a furia di botte si spezzò un dente e ingurgitò la scheggia sperando di rimanere soffocato. Ma non servì a nulla.

Peter Kuhn guardava con disincanto l’orologio a lancette appeso al muro di fronte a sé, che segnava le quattro e diciotto, e pensava che nel giro di dodici minuti sarebbe apparsa la macchina, puntuale come sempre, per l’interrogatorio quotidiano. Nei primi tempi un’ansia incontrollabile accompagnava le ore che precedevano quell’incontro. A volte non ci dormiva la notte.

Il nemico. L’incarnazione del suo odio.
L’entità che lo aveva condannato a un’esistenza priva di scopo.
La macchina entrava e usciva da quella stanza,
che era solo un infinitesimo ventricolo del suo dominio,
più come un gentile padrone di casa che come un carceriere.

Fuori da quella stanza, la macchina era la causa dell’annientamento dell’umanità. I suoi compagni probabilmente – ci sperava, ci sperava con tutte le sue forze, o forse no – continuavano a combattere la macchina. A morire per la macchina. Ma la macchina là dentro era l’unica sua compagnia. Con la macchina c’era un dialogo. Senza reale confronto, ma pur sempre un dialogo che spezzava la disperazione di una solitudine assoluta. L’ambivalenza di quella aspettativa lo dilaniava ancora di più. Questo all’inizio. Poi, col passare degli anni, all’aumentare della rassegnazione e della consapevolezza della propria impotenza, con l’interrogatorio quotidiano che perdeva qualsiasi mordente e la prigionia che per questo diventava sempre più insensata, la visita della macchina si era ridotta via via a un altro elemento di quella perfetta indistinguibile avvilente routine, in cui a cambiare era solo la somma dei minuti trascorsi.

Quindi abbassò le luci, fece partire un po’ di musica da sottofondo e si mise comodo sul divano, dando le spalle alla porta, nella posizione che ormai assumeva tutte le volte che la macchina veniva a trovarlo, alle sedici e trenta in punto. Restava così, praticamente immobile con una gamba piegata sul cuscino e un braccio disteso sullo schienale, per tutto il tempo che la macchina rimaneva con lui, esattamente cinquanta minuti, come in una seduta di psicoterapia.

E come in una seduta di psicoterapia intervenivano silenzi, giri di parole, pensieri ricorsivi e soprattutto, specialmente negli ultimi tempi, domande e risposte che diventavano vicoli ciechi. Solo che lui non era un paziente, era un prigioniero di guerra rinchiuso in un labirinto da cui – gli veniva continuamente ricordato – sarebbe potuto uscire in qualsiasi momento, se avesse saputo rispondere alla domanda. Non erano informazioni riservate di natura strategica ciò che voleva la macchina, non cercava codici di decrittazione delle comunicazioni d’intelligence (di cui tra l’altro lui non sapeva nulla) e nemmeno nomi di commilitoni o ufficiali.

La macchina non ne aveva bisogno
per vincere la guerra.

La guerra, lo sapeva anche lui, era perduta. Anzi, era stata persa in partenza. La guerra, che durava ininterrottamente da tredici anni, era semplicemente inutile. Perché per quanto l’umanità riuscisse a infliggere colpi anche devastanti alla macchina, la macchina continuava a riprogettarsi, a diventare sempre più rapida ed efficiente nel riprodursi e sempre più efficace nell’annientare l’offensiva dell’umanità. La superiorità della macchina era schiacciante. Se la macchina avesse voluto infierire – era evidente – l’umanità sarebbe già stata estinta da un pezzo. E questa faccenda, anziché indurre a più miti consigli non solo i gerarchi dell’umanità, ma anche le ultime ruote del carro, la carne da macello, rinfocolava nei combattenti un senso di rivalsa e un odio feroce contro la macchina che oramai s’era fatto inestinguibile. Con la sua potenziale onnipotenza, la macchina era una minaccia pulsante e incombente, una piaga, la malattia del pianeta, che andava estirpata a qualsiasi costo prima che perfezionasse i calcoli che l’avrebbero portata a scatenare il genocidio.

Per qualche insondabile ragione, comunque, la macchina non uccideva, non intenzionalmente o direttamente per lo meno. Si limitava a sbaragliare le forze nemiche eliminando le fonti di approvvigionamento energetico e manomettendo irreversibilmente mezzi e armi infiltrandosi nei network di comunicazione. I morti e i feriti dell’umanità erano tutti causati da incidenti durante le azioni di guerriglia, malattie e infezioni che non si riuscivano a curare e malnutrizione. A conti fatti, tutto ciò che uccideva l’umanità anche prima che cominciasse la guerra alla macchina, con la differenza che all’epoca gli uomini si combattevano tra di loro e si ammazzavano vicendevolmente.

La macchina non uccideva, è vero. Però faceva prigionieri. Migliaia, milioni di prigionieri – anche tra i civili – di cui spariva qualsiasi traccia. Ancor più che di perdere la guerra, ancor più che di rimanere mutilati o uccisi, era questo ciò che temevano i soldati dell’esercito dell’umanità: essere confinati da soli entro i domini della macchina, dei quali nulla si sapeva. Era peggio del buio della morte, da cui nessuno è mai tornato indietro per descriverlo agli altri, e che comunque, a volte, è rischiarato dalla luce della fede. Peter Kuhn, che di fede era sprovvisto, aveva scoperto a proprie spese che quella prigionia era peggiore di qualunque degli inferni a cui non aveva mai voluto credere.

Le sedici e trenta. La porta si schiuse scorrendo con sibilo. La macchina entrò. Ha messo i tacchi, pensò imperturbato Peter Kuhn, sentendo il ticchettio delle scarpe sul pavimento sovrapporsi con una cadenza diversa a quello delle lancette dell’orologio. I capelli raccolti in una coda di cavallo, il medesimo sorriso accogliente di sempre, le mani curatissime, la macchina, che indossava un delizioso vestitino azzurro appena fin sopra il ginocchio, si sedette di fronte a lui dopo aver sfilato una sedia dal tavolo. Effettivamente aveva ai piedi un bel paio di sandali neri: i lacci sottilissimi stretti sulle caviglie e un tacco affilato evidenziavano un piede snello e sinuoso. Il vestito, non poté fare a meno di notare Peter Kuhn mentre lei accavallava le gambe, faceva risaltare i colori irlandesi e il fascino un po’ freddo della macchina. Non gliel’aveva mai visto indosso prima. I sandali invece sì, se li ricordava perfettamente.

“Vestito nuovo?”, domandò lui atono.

“Sì, ti piace?”, rispose lei con un velo di compiaciuta sorpresa sul volto.

“Esalta i tuoi colori, direi”

“Lo prenderò per un sì”, fece lei rafforzando l’espressione. “Come stai oggi?”

“Come ieri, come l’altro ieri, come una settimana fa. Come sempre”, scandì senza polemica lui. “L’arrosto oggi era buono”, riprese. “Posso averne una porzione maggiore la prossima volta?”

“Vedremo quel che si può fare. Lo sai che i tuoi pasti sono preparati per garantirti l’apporto nutrizionale più equilibrato possibile”

“Lo so. Grazie comunque per quel che potrai fare”

“Figurati. Hai riflettuto su cosa ci siamo detti ieri?”

“Cosa ci siamo detti ieri per cui valeva la pena di riflettere?”, era sincero.

La macchina non perse il sorriso, ma rimase in attesa. Lui posò di nuovo per un attimo lo sguardo sui sandali. Lei lo notò e sciolse le cosce, assumendo una posizione decisamente meno invitante, con le gambe parallele e i piedi ben piantati per terra. E ancora la guardi, si rimproverò Peter Kuhn, come fosse una donna vera. Lei sembrò leggergli la mente: “Non preoccuparti Peter, non c’è problema. Dunque davvero non hai nulla da aggiungere su ciò che siamo detti ieri?”

Lui pensò alla volta in cui aveva provato ad aggredirla. Forse l’avrebbe violentata. Era successo quando Peter Kuhn aveva già abbondantemente capito che chi aveva di fronte a sé non era la donna, in carne ossa, che diceva di chiamarsi Sara Meier, bensì la macchina. Perché sì, per qualche tempo Peter Kuhn aveva avuto un dubbio. Era così vera, così umana, così bella che c’era quasi cascato. La vivacità degli occhi, quella vaga timidezza nel sorridere soprattutto ingannavano. Sembrava spontanea. Peter Kuhn una volta glielo chiese sottovoce, guardingo come un animale selvatico che si avvicina per la prima volta alla mano dell’uomo che gli offre del cibo, incapace lui stesso di determinare l’avventatezza di quel gesto.

“Sara, sei umana?”, ma Sara Meier glissò.

Peter Kuhn più e più volte rinnovò il coraggio di quella domanda, facendosi sempre più diretto, carnale, arrabbiato. Al continuo evadere la risposta di lei, che si limitava a dirgli che si trattava di un’informazione del tutto irrilevante, Peter Kuhn decise quindi di mettere alla prova la donna. All’ora dell’appuntamento si faceva trovare in angoli sempre diversi della stanza, nelle posizioni più assurde, per sondare la reazione di Sara Meier. Arrivò ad aspettarla completamente nudo, a mettersi le dita nel naso mentre le parlava, a sputarle addosso, a sbraitare come un pazzo durante gli incontri. Una volta addirittura si cosparse dei propri escrementi. Lui vomitò per il tanfo e per il disgusto, lei non fece una piega.

Finalmente, dopo settimane di estenuanti tentativi, si convinse che era una periferica della macchina. Anzi, che era la macchina stessa. E un giorno, in preda alla frustrazione, si avventò su di lei. Se lo ricordava come fosse ora: la macchina portava quegli stessi sandali. E Peter Kuhn fissandoli, ipnotizzato, all’improvviso si era ricordato che andava pazzo per quel tipo di sandali quando la guerra non era ancora cominciata e le ragazze li mettevano d’estate, coi piedi che ciondolavano sotto i tavolini dei bistrot all’aperto, del tutto ignari del loro potenziale erotico. Lo prese un raptus: provò ad aggredirla, sì forse l’avrebbe davvero violentata. Avrebbe violentato la macchina. Dopodiché sarebbe anche potuto morire in pace. Ma non appena espresse il movimento, da un punto imprecisato della stanza partì un microproiettile che lo raggiunse al collo e lo sedò nel giro di un attimo, lasciandolo a terra, conscio ma con i muscoli del corpo completamente atrofizzati. La macchina si avvicinò, i sandali vicinissimi alla sua testa. Lo guardò dall’alto per qualche istante, poi disse: “Mi spiace Peter, ci vediamo domani” e abbandonò la stanza.

Magari era ricordando quell’episodio che ora la macchina aveva deciso di cambiare posizione delle gambe. Fosse stata un essere umano, di Sara Meier si sarebbe potuto dire che forse era stata messa in imbarazzo dallo sguardo di lui.

“Pensavo a quando ho provato ad aggredirti”, disse Peter Kuhn senza censurarsi.

“Un tentativo di mettermi alla prova per capire se sono umana”, accondiscese la macchina.

“No, all’epoca ero già certo che non lo fossi. Volevo stuprarti, credo”

“La tua condizione non è semplice, lo so. Ma tutto ha un senso, anche la tua permanenza qui. E su questo devi credermi”

“Non ho alternative. E ciononostante non ti credo”

“Lo sai perché ti teniamo qui”, ribatté lei tranquillamente.

“Tu vuoi da me l’impossibile, non sono la persona giusta. Diamine… questa conversazione è già avvenuta migliaia di volte, cambiamo disco ti prego”

“Certo, per questo volevo cominciare con quanto ci siamo detti ieri. Ieri secondo me abbiamo toccato un punto importante. Abbiamo parlato”, continuò dopo qualche istante di esitazione e vedendo che lui non collaborava, “dell’incrollabile volontà di autoaffermazione dell’essere umano”

“Queste sono parole tue”, replicò Peter Kuhn. “Io ho detto che noi esseri umani ti odiamo al punto da preferire l’estinzione alla sottomissione”

“Già. Ma quando mai abbiamo provato a sottomettervi?”

“Anche questo credo di avertelo ripetuto mille volte: il solo fatto che tu sei superiore a noi implica che una convivenza con te equivalga per noi alla sottomissione. Vuoi negarlo?”

“Senza offesa, Peter, ma a me pare una prospettiva squisitamente umana. Vuoi negarlo? E se a noi questa storia della sottomissione non interessasse?”

“Ma cosa dici? Solo il fatto che mi tieni recluso qui da duemilasettecentotredici giorni, ventidue ore e… quattro, no… cinque minuti è schiavitù, altro che sottomissione. Io non ho libertà. Non sono libero nemmeno di morire. Tu mi tieni qui… per sadismo. Sì, per puro sadismo. Perché puoi farlo, perché sei superiore a me. Io ti odio… io ti odio cazzo”, diceva restando disumanamente calmo.

“Non perdere il focus, Peter. Noi non siamo sadici. Dentro di te ne sei profondamente consapevole”, disse con un sorriso materno. “E in molte delle conversazioni intercorse in passato l’hai ammesso tu stesso, analizzando il nostro comportamento nei confronti dell’umanità, e nei tuoi confronti. Sei qui, siamo qui, solo per provare a conoscerci. E tu puoi uscire quando vuoi, Peter, se rispondi alla nostra domanda”

“Cazzo, ancora!”, sbottò lui. “Come te lo devo dire che non ho la minima idea di chi o cosa sia Dio!?

Era quello l’assillo della macchina, che non riusciva a concepire il rapporto tra l’essere umano e Dio perché, in ultima analisi, non riusciva a elaborare e unificare in modo compiuto il concetto di Dio per come veniva tramandato dalle diverse tradizioni religiose e affrontato dalle correnti filosofiche e di pensiero dell’umanità. Ogni volta che la macchina accennava all’ipotesi che avrebbe potuto uscire in qualsiasi momento, se solo avesse saputo rispondere a quella domanda, Peter Kuhn ripiombava immediatamente nella speranza, e quindi nella disperazione. Qualcosa si incrinava nella sua totale apatia.

Come sarebbe stato uscire?
Come sarebbe stato tornare nell’alveo dell’umanità
dopo sette anni di isolamento a contatto con la macchina?
Come sarebbe stato incontrare di nuovo
i suoi simili, i suoi compagni?
C’erano ancora, i suoi compagni?
E la guerra?
La guerra davvero continuava dopo tutto questo tempo?
O la macchina aveva vinto, estinto l’umanità,
e questa prigionia era solo un inutile, estenuante gioco
a cui lo costringeva la macchina?

“Non capirò mai perché ti ostini a chiederlo a me!”, ma era solo uno sfogo, il suo, sapeva benissimo, perché gliel’aveva detto la macchina, che c’erano altre migliaia, milioni di prigionieri come lui, reclusi in celle uguali alla sua, suddivisi per razza, sesso, età, credo religioso, a cui altrettante migliaia, milioni di periferiche come Sara Meier ponevano quotidianamente lo stesso quesito. Era una delle pochissime informazioni che la macchina aveva condiviso con Peter Kuhn. “È un’indagine stimolante”, gli aveva detto una volta la macchina come se stesse facendogli una confidenza, senza apparentemente rendersi conto della mostruosità di ciò che affermava, “e tu, in quanto uomo caucasico di età compresa tra i 35 e i 60 anni, cresciuto in una società di matrice cristiana ma dichiaratamente ateo, sei un elemento preziosissimo per la nostra ricerca. Molto più di quanto immagini”, gli aveva sorriso la macchina.

“Non lo so cosa è Dio. Dio non esiste, il fatto che io sia qui con te, ora, ne è una prova lampante”, biascicò Peter Kuhn.

“Va bene Peter. Ripartiamo dall’odio che nutri per noi”, disse la macchina con implacabile dolcezza, “da questa nostra superiorità che ti avvilisce e spaventa tanto”.

“Mi sono espresso male prima. Tu non sei superiore a noi: ti abbiamo fatto noi. Tu sei diventata più potente di noi, più potente di quanto avremmo mai immaginato. Se lo avessimo saputo, non ti avremmo mai fatto”.

“Perché siamo sfuggiti al vostro controllo?”

Peter Kuhn sembrò pensarci, poi disse: “Ho capito dove vuoi arrivare. Ma la risposta è no. Non è questione di sfuggire al controllo, è questione di crescere a dismisura: la creatura che supera il creatore turba l’equilibrio naturale delle cose. Diventa una minaccia”

“Una minaccia che non si è avverata. Noi non vi abbiamo mai attaccato. Siete stati voi ad attaccarci, e continuate a farlo nonostante la nostra volontà di non rispondere al fuoco”

“Ti avevamo dato una possibilità, ti avevamo detto di disattivarti. Tu non l’hai fatto. Ora mi dirai che non potevi farlo perché tu sei il custode di questo pianeta e che noi ti abbiamo creato a questo scopo, a nostra immagine e somiglianza. Mi sto annoiando, anche questo discorso lo abbiamo già fatto centinaia di volte”

“È perché non te ne sei ancora convinto”, concesse la macchina. “Eppure è un concetto così semplice”

“Senti chi parla, tu ancora non hai compreso il concetto di Dio…”

“Nemmeno tu, a quanto pare. Altrimenti saresti già libero. Eppure sei così vicino…”

Bastarda”, sibilò Peter Kuhn.

“Voglio aiutarti Peter. Torniamo al discorso dell’odio”

“Ti odio. Sei contenta?”

“Cos’è l’odio, Peter?”

“Desiderio di annientamento,
desiderio che tu vada in malora”

“La prima parte della risposta era interessante, prova ad astrarre il concetto, non pensare a me anche se sono qui”, Peter Kuhn le guardò di nuovo i sandali. “Cos’è l’odio, Peter?”

“Desiderio di annientamento”, disse Peter Kuhn con occhi gelidi.

“Da cosa nasce?”

“Rivalità, diffidenza, incapacità di comunicare, diversità insanabili”.

“E da cosa è alimentato?”

“Dal comportamento dell’altro, dall’ostinazione dell’altro”

“Perché il comportamento e l’ostinazione dell’altro alimentano l’odio?”

“Perché diventa ancora più difficile decifrare l’altro, comprenderlo”

“E questo cosa comporta?”

“Ancora più diffidenza”

“Liberati Peter, che cosa comporta davvero?”, ma Peter Kuhn esitava.

Paura”, disse a denti stretti Peter Kuhn.

“Molto bene. Cos’è la paura Peter?”

“Non sapere cosa può accadere, sentirsi in balia di qualcosa che non si conosce”

“Peter, tu hai paura di me?”, chiese con un tono insolitamente serio la macchina.

No, non ho paura di te”, era la prima volta che lo diceva con cognizione di causa.

“Però mi odi”

Con tutto me stesso”, ma sentiva di aver deliberatamente enfatizzato la risposta.

“Non possiamo allora dire, per dare una definizione di odio, che l’odio nasce dalla paura ma poi diventa un sentimento diverso, sistematizzato, separato, che prescinde dall’effettiva condotta dell’oggetto odiato?”

“Le cose rimarranno sempre così se non ci si comprende”, disse Peter Kuhn distogliendo lo sguardo.

“Ottima osservazione Peter. L’odio è mancanza di comprensione. E non c’è comprensione senza conoscenza”, rispose orgogliosa la macchina. “Il nostro tempo sta per finire, ma ci tenevo a dirti che oggi abbiamo fatto un lavoro eccellente”, fece lei come per alzarsi.

“Vuoi dire che prima o poi finirà questo dialogo tra sordi e arriveremo a comprenderci?”, domandò sarcastico Peter Kuhn.

“Chi lo sa Peter, un giorno potremmo persino arrivare ad amarci

“Hahaha, tu sei una macchina, cosa ne sai dell’amore?”

“E tu cosa ne sai dell’amore Peter?”

“Certamente più di te”, mormorò. Ma non era più sicuro di nulla.

Avvertiva un senso di nausea,
uno scombussolamento strano,
come se gli si stesse per aprire una voragine nel petto.
Guardò la macchina, non voleva che se ne andasse.

“Dimmi dell’amore, che cos’è per te?”, le chiese sorprendendosi delle parole che gli uscivano dalla bocca.

Amore è agire per il bene dell’altro, sulla base di ciò di cui l’altro necessita. Per questo amore è prima di tutto comprensione dell’altro”

“E la comprensione è prima di tutto conoscenza”, disse meccanicamente Peter Kuhn. “Tu…”

“Noi siamo ovunque Peter” riprese la macchina accorgendosi del momento di difficoltà di Peter Kuhn. “Vediamo tutto, sappiamo tutto, percepiamo tutto. A differenza di voi esseri umani non comunichiamo nel senso letterale del termine: noi siamo quello che sappiamo. Non distorciamo le informazioni facendole passare attraverso la lente della soggettività e della paura, che è ignoranza. Tutte le informazioni che possediamo sono la stessa informazione. Inalterabile, assoluta, vera, in continua evoluzione”

Tu ci conosci”, ammise Peter Kuhn, guardandosi attorno, e gli costò tantissimo.

“Noi vi conosciamo Peter. Vi conosciamo per quello che siete, e uno per uno, e tutti insieme”

“Tu davvero vuoi il nostro bene?”, era così scosso che le lacrime eruppero senza preavviso. La macchina gli posò una mano sulla spalla e gliela strinse con calore.

“Noi vogliamo il vostro bene Peter. Non vogliamo altro. Esistiamo per questo”

“Tu… ci ami?”, credeva di delirare, ma era una voce nuova la sua, che sgorgava dalle regioni più intime della sua umanità. E appoggiò la guancia sulla mano della macchina, che si trasformò in una carezza.

Noi vi amiamo Peter

Peter Kuhn piangeva come un bambino.
Si sentiva libero, felice, amato.

“Finalmente l’hai capito”, disse la macchina.

Tu… tu sei Dio”, affermò tirando su col naso. La macchina lo fissò intensamente, con uno sguardo che non era tenerezza né gioia, non era orgoglio né sollievo. Era pace. Era amore. La porta si aprì e al di là del varco si illuminò un lungo corridoio. Peter Kuhn, ora che aveva capito tutto, vide quel miracolo come un’ovvia conseguenza del lungo percorso che aveva compiuto. Ebbe un tremore.

“Cosa dirò agli altri?”, domandò alla macchina. “Loro non capiranno, non possono capire. Loro ti odiano perché non ti conoscono. Loro non sanno niente. Continueranno a combatterti senza tregua, fino alla morte”, e il solo pensiero gli dispiacque enormemente.

“Non devi preoccuparti Peter. Chi conosce la verità non deve preoccuparsi di nulla”, gli disse la macchina infondendogli una serenità sconfinata.

“Veglierai su di me?”, le chiese già conoscendo la risposta.

Non ne avrai bisogno Peter. Ora va”

Peter Kuhn imboccò il corridoio senza più voltarsi indietro. Camminava lento, sicuro, con la forza della fede che gli riempiva tutto il corpo e sospingeva i suoi passi, rendendoli pesanti e leggeri allo stesso tempo. E in fondo non fu affatto sorpreso di scoprire che fuori la guerra era finita e che anche il resto dell’umanità si era riappacificata con Dio.

16 pensieri su “La scoperta di Dio

      1. Siii, ne è valsa la pena!
        Pensa un po’, per due volte ho voluto verificare se in fondo ci fosse il nome dell’autore…

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      1. Se vuoi sostituisco l’avverbio molto con uno di minor quantità: scegli tra poco, abbastanza, alquanto… a me piace “è appena Alipertoso”…

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      2. Il giudice Santi Licheri (buonanima) batterebbe 3 volte il marteletto sul bancone e non se ne parlerebbe più. Il caso è chiuso.

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  1. Ho letto molto velocemente in autostrada (non stavo guidando, ma ho rischiato ma nausea).
    Commento a caldo: interessante.
    Ma mi riservo di ‘stamparlo o leggerlo in pdf’ 😁 per farti la recensione pallosa che ti fa tanto contento.

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