La noia? È un problema d’estetica


Lo psicologo inglese Adam Phillips chiama la noia «il più assurdo e paradossale dei desideri, il desiderio di un desiderio», e una volta così definita la noia non si può curare con la distrazione, con i bar o i ristoranti, ma solo con la nascita di un senso di attesa. So che per quanto mi riguarda la noia comporta una spazializzazione del tempo; la vita perde il suo movimento in avanti e io attendo, e nell’attesa il tempo diventa un luogo – non un luogo particolarmente bello, ma comunque un luogo, con i minuti e le ore, i giorni e i mesi che si vanno accatastando con indifferenza. Per gli studiosi di fenomenologia, questo tipo di ripetitività non è una proprietà del tempo ma dello spazio, e sarebbe più appropriato chiamarla «ridondanza», che si verifica quando le cose eccedono il necessario. Nella noia si assumono in parte le caratteristiche di un oggetto, si diventa inanimati e spenti, privi di flusso, e più il senso del tempo si traduce in spazio, più ci si ritrova isolati – isolati perché ci si ritrova estranei. L’inquietante presagio che si intravede dietro la noia, il suo segreto sussurrato, è la morte, un esaurirsi definitivo del tempo in cui tutti gli esseri viventi finiscono per appartenere esclusivamente allo spazio. Nella noia, restiamo vittime di un’immutabilità all’interno di una gerarchia il cui iniziale principio ordinatore era un’ormai dimenticata, residuale perdita di proporzione: che è poi un problema estetico, il problema del disporre armoniosamente le parti all’interno di un tutto.


Charles D’Ambrosio

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