«Nella fattoria in cui sono cresciuta, d’estate si prosciugavano i pozzi». È l’incipit nascosto (nel senso che viene dopo l’incipit apparente) di uno dei suoi racconti più belli, «Ortiche». Il doppio inizio ha un motivo ben preciso: sembrerebbe la storia di un primo amore – quello per Mike, il figlio del perforatore di pozzi – ma è anche la storia di un altro rapporto, quello tra una donna e il suo mondo. Nella prima parte del racconto siamo nell’Ontario dei tardi anni Trenta, e la narratrice non è che una bambina. «La fattoria era piccola, nove acri di terra. Abbastanza piccola perché l’avessi esplorata tutta quanta, e ogni sua parte aveva caratteristiche particolari che non saprei descrivere a parole». Luoghi dotati di un’anima, capaci di esercitare attrazioni e repulsioni: il recinto delle volpi, lo scannatoio dei cavalli, le buche vicino al fiume dove un tempo si era estratta la ghiaia. «Ma c’erano anche altre cose che avevano, a loro volta, un mucchio di cose da dirmi, anche se non vi era mai accaduto niente di memorabile». Una pietra del selciato, il ceppo di un albero abbattuto.
Oggetti magici.
Poi arriva Mike, al seguito del padre venuto a cercare l’acqua, e tutto cambia. «Mike vedeva queste cose con occhi diversi. E io pure, adesso che ero con lui. Le vedevo a modo suo e a modo mio, ma il modo mio era incomunicabile per natura e perciò doveva restare segreto. Il suo invece aveva a che fare con l’utilità immediata». Un sasso serve a saltarci sopra, un albero ad arrampicarsi, una pozza a tuffarcisi dentro dopo una lunga rincorsa. Inesauribile ideatore di avventure, Mike assume il comando dei giochi e il controllo della geografia. E la bambina se ne innamora in una quieta sottomissione, accantonando il proprio mondo segreto in favore di quello di lui. Non è questo, si chiederà da grande, che ci si aspetta da una moglie? Ma quando il padre di Mike finisce il lavoro i due piccoli amanti vengono brutalmente separati, e il paesaggio si trasforma di nuovo:
«Non avevo idea, finché Mike non scomparve,
di come potesse essere un’assenza.
Di come il mio intero territorio si sarebbe modificato,
come se una frana ci si fosse riversata sopra
facendo piazza pulita di ogni significato,
tranne che della perdita di Mike».
Ora il sasso, la pozza, l’albero, sono i ruderi di una relazione. Ogni cosa è ricordo di ciò che era prima. Fortunato colui che se ne va, peggio per chi rimane: condannato a guardarsi intorno e vedere solo le orme di chi non c’è più.
Paolo Cognetti
Non trovi incredibile che la Munro abbia scritto solo racconti?
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non ho ancora letto nulla di suo, ma lo farò dopo aver assaggiato Grace Paley, altro consiglio che arriva da questo saggio di Cognetti, che sto trovando preziosissimo
PS
io adoro la formula del racconto: a un bel romanzo preferisco una bella raccolta di racconti, quindi mi sta bene una Munro votata alle storie brevi!
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Io trovo infinitamente più difficile scrivere racconti che romanzi; solo mi sembra strano che lei non si sia mai misurata col romanzo.
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