Buono, badiamo, quieto, garbato, remissivo, don Filippino Lo Cìcero, ma senza dubbio un po’ svanito di cervello. Leggeva dalla mattina alla sera certi libracci latini, e viveva solo in campagna con una scimmia che gli avevano regalata.
La scimmia si chiamava Tita; era vecchia e tisica per giunta. Don Filippino la curava come una figliola, la carezzava, s’assoggettava senza mai ribellarsi a tutti i capricci di lei; con lei parlava tutto il giorno, certissimo d’esser compreso. E quando essa, triste per la malattia, se ne stava arrampicata sulla trabacca del letto, ch’era il suo posto preferito, egli, seduto sulla poltrona, si metteva a leggerle qualche squarcio delle Georgiche o delle Bucoliche:
– Tityre, tu patulae…
Ma quella lettura era di tratto in tratto interrotta da certi soprassalti d’ammirazione curiosissimi: a qualche frase, a qualche espressione, talvolta anche per una semplice parola, di cui don Filippino comprendeva la squisita proprietà o gustava la dolcezza, posava il libro sulle ginocchia, socchiudeva gli occhi e si metteva a dire celerissimamente: – Bello! Bello! Bello! Bello! Bello! – abbandonandosi man mano sulla spalliera, come se svenisse dal piacere. Tita allora scendeva dalla trabacca e gli montava sul petto, angustiata, costernata; don Filippino la abbracciava e le diceva, al colmo della gioia:
– Senti, Tita, senti… Bello! Bello! Bello! Bello! Bello…
Luigi Pirandello
Bello! Bello! Bello!
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Beddu! Beddu! Beddu!
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pi ttia biddazza mia
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Ti stavo correggendo il “mia”, ma hai fatto anche la rima e ci sta benissimo.
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