Il ballo delle debuttanti

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Pioveva, e Modena era una sonnolenta macchia scura solcata dai fanali di rade automobili. Lungo la via le luci delle case, ora gialle e tremolanti delle abat-jour ora azzurrognole e psichedeliche dei televisori, formavano una malinconica scacchiera di esistenze appena accennate.

Tutto era tranquillo,
tutto precipitava piano
nella notte assecondando
il ritmo della pioggia.

Lui contemplava questo silenzio da dietro una finestra appannata. Alle sue spalle un nugolo di ragazzaglia chiassosa, mezza nuda e mezza bagnata, entrava e usciva dalle docce attraversando muri di vapore con scrosci di schiamazzi, urla e risate. Era la loro meritata ricompensa, bisognava dargliene atto: avevano sgobbato come muli per un mese, due sere a settimana, dopo pomeriggi comunque estenuanti di flessioni, corse, arrampicate, che a loro volta seguivano a ruota le lezioni mattutine di fisica, strategia, informatica e inglese. C’era solo da ammirarli per la perseveranza che avevano dimostrato. Ciascuno di loro aveva fatto carte false per riuscire a entrare nel novero dei trenta fortunati che avrebbero partecipato al ballo delle debuttanti, e ciascuno di loro aveva fatto onore a quell’impegno dando fondo a tutte le proprie energie per imparare i rudimenti del valzer e di qualche liscio. Giusto per non sfigurare. Giusto per non pestare i piedi alle dame. Le quali, diciamo la verità, erano forse messe peggio della controparte maschile: per loro ballare voleva dire andare a sbattere il culo a destra e a manca nella discoteca all’ultimo grido di turno, lì nel Modenese o a Bologna. Con tutt’al più qualche puntata nei locali degni di questo nome a Milano o a Riccione. Ma sempre per sbattere sguaiatamente il culo a destra e a manca. I ragazzi, invece, grazie al rigore dell’addestramento militare, e soprattutto grazie alla dedizione alla causa della gnocca, riuscivano a eseguire con precisione, ritmo ed eleganza discreta – anche se non proprio appassionata – i passi principali. Dunque era lecito che fossero così entusiasti, così ansiosi di stringere al petto quelle bamboline maliziose. Complici la divisa e qualche bicchiere di troppo, non ci sarebbe voluto poi molto per appartarsi e convincerle a farsi pastrugnare dietro un paravento o una tenda.

A questa idea molti dei cadetti avevano rinunciato a masturbarsi per tre o quattro giorni, così da ritrovarsi al dunque del confronto con una voglia esagerata. Qualcuno, temendo i brutti scherzi che può giocare l’emozione, si era procurato una pillola di Viagra o di Cialis e l’aveva ingurgitata quel pomeriggio insieme a un bel po’ di autostima. C’era stato addirittura chi, nel dubbio su quale delle due pillole fosse più efficace, se l’era prese entrambe.

Naturalmente, della faccenda delle pillole,
nessuno ne aveva fatto parola ad altri.
Nemmeno al commilitone più fidato.
Ognuno piuttosto cercava di comunicare
guasconamente sicurezza e virilità.

Lui no, niente di tutto questo. A lui a dire il vero non era mai fregato niente del ballo delle debuttanti. C’era finito solo perché il padre, un ufficiale che nell’esercito non era riuscito a fare troppa strada e che era scomparso un anno addietro, era stato un amico intimo del comandante dell’Accademia, e a suo tempo lo aveva implorato di avere un occhio di riguardo per il figlio nelle varie circostanze in cui può incappare un cadetto. Il ballo delle debuttanti era per l’appunto, nella mente del comandante, una di queste circostanze, e fece in modo che il ragazzo fosse scelto anche se non aveva avanzato la candidatura. Gli ordini, si sa, sono ordini, e lui non si era potuto tirare indietro. “Povero papà. Pensare che pure tu detestavi queste stronzate…”, recriminava a bassa voce con la fronte schiacciata ai vetri della finestra, mentre gli arrivavano un paio di scudisciate di asciugamano sulle chiappe. “Eddai, vedrai che qualcosa stasera la combini pure tu”, lo sfottevano gli altri. “Com’è che si chiama la tua ragazzona?

Si chiamava Nella (non aveva mai capito se diminutivo di Ornella o Antonella), era figlia di grossi gioiellieri di Carpi, e pareva in effetti un piccolo bisonte. Non che avesse un brutto viso, per carità. Quando non sorrideva eccessivamente, gonfiando le gote fino a rendere gli occhi due sottili fessure cinesi e scoprendo un paio di canini da suino, la ragazza languiva in un’espressione dolce, ingenua. Soave. Ecco, soave era proprio il termine che calzava. Il problema era tutto il resto. Chiatta e tracagnotta, Nella aveva braccia a forma di insaccato e fianchi pesanti che scendevano impietosamente sulle cosce formando un unico blocco di ciccia. Le caviglie non gliele aveva mai viste, ma se le immaginava grosse e cilindriche, ricoperte di quello stesso strato di grasso sodo e uniforme che i suoi polpastrelli avevano imparato a decifrare durante le prove per il ballo. Tutto questo lui lo pensava senza cattiveria. Non si considerava un esteta, uno di quelli che fanno le pulci alle ragazze. No, no. Lui non perdeva tempo a misurare con squadra, righello e goniometro le forme delle donne, no. Ma di Nella conosceva ogni minimo dettaglio, e i suoi giudizi, duri ma onesti, scaturivano dalla semplice osservazione a cui lo avevano costretto prolungati e ravvicinati contatti. Se non aveva velleità erotiche nei confronti della soave paffutella, infine, non era perché lei appariva oggettivamente bruttina, ma per il semplice fatto che non aveva alcun tipo di velleità erotica per il gentil sesso in generale: per lui l’adolescenza doveva essere un’età in cui era necessario prima di tutto obbedire e imparare, trovare una forma, sviluppare un pensiero rigoroso. Proprio come gli aveva insegnato suo padre. Poi, con il tempo, quando fosse arrivato il momento di sposarsi, si sarebbe scelto una compagna. E non avrebbe avuto problemi a mettersi con una che non fosse stata una bellezza. Per farla breve, quando fosse arrivato quel momento, si sarebbe pure potuto sposare con una come Nella.

Ma quella sera non aveva voglia né di ballare, né di stamparsi un sorriso posticcio sulle labbra, né tanto meno di stringere la carne di Nella trascinandola nelle danze fino a sentirne il vestitino candido intingersi di sudore. Si asciugò svogliatamente i capelli e indossò con cura l’alta uniforme, assaporando un sottile piacere, quasi una specie di sollievo rispetto alla serata che stava per cominciare.

Era la familiare sensazione
che provava ogni volta
che metteva la divisa.
Gli dava sicurezza, forma e rigore,
rifletteva fra sé e sé
tutte le volte che ripeteva il rito.

Finalmente fu pronto. Attraversò un corridoio scuro con i passi che risuonavano tra le brande perfettamente rifatte e raggiunse i compagni. Gli altri, che non stavano più nella pelle all’idea di andare a prendere le ragazze, vociavano ammassati già da un buon quarto d’ora all’uscita dei dormitori. Fu investito da una folata di profumi e dopobarba che gli dette la nausea. Rimase così praticamente in apnea fino a quando comparve il sergente istruttore, il quale ordinò loro di mettersi in formazione: si andava in scena.

Tutti ammutolirono e in men che non si dica si disposero su due file, pronti a muoversi al comando. Il piano era semplice: sarebbero scesi lungo la scalinata che conduce dal dormitorio all’androne dove di solito viene servita la colazione. Lì era previsto il rendez-vous: si sarebbero uniti ciascuno alla rispettiva compagna e poi insieme, mano nella mano, avrebbero fatto il loro ingresso nel cortile della caserma, dove era stata allestita una grossa tensostruttura che accoglieva l’orchestra filarmonica della città, gli ospiti dell’evento – tra cui spiccavano le mamme delle fanciulle, inanellatissime e agitatissime – e i più importanti ufficiali del distretto. Così, a un cenno del sergente, i cadetti scesero le scale e dopo qualche istante si imbatterono in quello sciame di ragazze vestite tutte uguali. Per un attimo lui sperò di non trovare Nella. Che so, magari s’era ammalata improvvisamente e gravemente, e i genitori, presi dal panico, l’avevano portata d’urgenza al pronto soccorso senza nemmeno riuscire ad avvisare la segreteria dell’Accademia. Oppure, nel calzare una scarpetta, Nella aveva fatto un movimento brusco strappando in maniera rovinosa il suo bel vestitino lungo tutto la schiena. Avrebbe dovuto rinunciare al ballo, poverina! Dove lo trovava all’ultimo momento un altro vestito? E della sua taglia, poi! Invece Nella c’era. Eccola là, che lo osservava timidamente aspettando che andasse a prenderla con passo marziale, sguardo sicuro e sorriso affabile.

Lui fece per sospirare, ma incappò negli occhi severi del sergente e si trattenne, rispettando scrupolosamente gli ordini: niente sospiri, niente sbadigli e soprattutto niente facce tristi. Approntò il suo sorriso più convincente e raggiunse Nella. Fu davvero sorpreso: se aveva previsto che i guanti bianchi tirati su fin oltre il gomito avrebbero acuito l’effetto salamella delle braccia, notò invece con viva curiosità che la piega con cui le avevano acconciato i capelli (esattamente uguale a quella di tutte le altre, uno chignon attorcigliato sulla nuca) le metteva in evidenza sulla parte sinistra del capo una profonda scriminatura che in certi punti diventava alopecia. “Non mi ero mai accorto che avesse così pochi capelli”, constatò senza smettere di sorriderle. Le porse la mano e presero posto nel corteo di coppie che cominciava a muoversi lentamente, in un silenzio surreale, rotto solo da qualche risatina di ragazza e da un tuono che fece vibrare i vetri delle vecchie finestre.

Quando entrarono nel tendone, dopo aver zampettato rapidamente per una decina di metri sotto la pioggia, furono accolti da un applauso non troppo deciso e dall’orchestra che intonava una marcetta sbiadita.

Lampi di flash,
videocamere e microfoni
si avvicinavano ingigantendo
l’eccitazione dei giovani
e al tempo stesso
aumentandone il contegno.
Solo i sorrisi smaglianti e incerti
delle debuttanti tradivano
una certa emozione.

I cadetti invece erano apparentemente freddi, concentratissimi. Piccoli uomini dallo sguardo duro meravigliosamente eretti nelle loro uniformi. Anche lui si era calato in quell’ipnotico rigore marziale. Ma a differenza dei commilitoni non cercava col braccio l’appoggio sul seno della compagna, non tentava invisibili strusciamenti per saggiare la disponibilità a combinare qualche porcata più tardi. Evitava più che altro di incrociare gli occhi di Nella, anche lei tutta intenta a viversi quel momento di accecante inutilità. “Mannaggia, riecco il sorriso da suino cinese”, non poté fare a meno di notare. “E guarda, suda persino dalle orecchie! Fortuna che chi le ha messo il trucco ci ha saputo fare”, pensava, “altrimenti le sarebbe tutto colato rigandole le guanciotte”.

A un certo punto vide da lontano il comandante della caserma. Il petto gonfio per consuetudine, si godeva la scena nel suo complesso con un sorriso presidenziale che voleva elargire soprattutto ai genitori delle ragazze, i quali gli avevano pagato fior di quattrini per veder le proprie rampolle principesse per una notte. Tutto stava andando come previsto, e questa era l’unica cosa che importava. Gli venivano in mente le parole di suo padre, quando prima di iscriverlo all’accademia gli parlava dell’amico colonnello. “Vedrai, è una persona molto umana, un soldato alla vecchia maniera, tutto d’un pezzo, che però sa ancora emozionarsi. Un gran signore”, ripeteva mettendogli la mano sulla spalla. “Un uomo molto intelligente”, rilanciava sua madre. “Con i suoi limiti, certo: è pur sempre un ufficiale!”, soggiungeva con una smorfia per punzecchiare il marito. Ora lui guardava quel soldato tutto d’un pezzo ma ancora capace di emozionarsi ammiccare agli scatti dei fotografi e ai microfoni dei giornalisti locali che lo assediavano con le domande di rito, e cercava dentro di sé un’opinione su quell’uomo. “La sua grandezza finisce dove finisce lui”, considerò amaramente con tutta la consapevolezza maturata attraverso tre anni di corsi e addestramento. Quei tre anni da allievo e subalterno, ne era certo, l’avevano aiutato a conoscerlo meglio di quanto pensasse di averlo conosciuto suo padre in una vita di amicizia. “A lui basta che tutto fili liscio e potrà dirsi più che soddisfatto, stasera”, constatò facendo volteggiare Nella in una mezza piroetta per accompagnarla a prendere posizione. “E questo per lui equivale a dirsi felice”, chiosò con un severo inchino alla propria dama.

Si aprivano le danze.

Il repertorio era una classica selezione di polche e valzer di Strauss e Tchaikovsky, inframezzati da qualche pezzo più semplice e ritmato: opere moderne come Over the Rainbow e What a Wonderful World, o ancora Nel Blu Dipinto di Blu, riarrangiate per passi di salsa, ma senza eccessi. Lui non era appassionato di musica, ma a furia di sentirli durante le prove aveva imparato a memoria tutti i pezzi. Qualcuno, lo riconosceva, non gli dispiaceva nemmeno. Si cominciava con il Valzer dei Fiori dello Schiaccianoci.

Al flebile crescendo degli archi e dei fiati le dame, che si erano disposte a falange sul fianco destro del gruppo dei cadetti, cominciavano a ondulare le braccia in una specie di riverenza, mentre i cavalieri eseguivano una giravolta, come se indugiassero a invitarle. Poi, non appena dall’orchestra sorse l’arpa con il suo suono di cristalli danzanti, le fanciulle partirono graziosamente a piccoli passi per congiungersi ognuna con il proprio cavaliere, come a emulare un candido stormo di uccelli che si librava in volo. Le mamme e i papà delle ragazze assistevano alla scena col fiato sospeso, con la tentazione di applaudire. Ma già entravano gli ottoni, e l’oboe s’insinuava ardente, arrampicandosi per l’aria come un’edera. Un-due-tré-un-due-tré, dicevano i violoncelli, e le coppie cominciavano a vorticare. Prima di rendersene conto, tutti giravano in moti di rotazione e rivoluzione intorno alla pista, con la melodia portante che sosteneva i loro passi. Ora più tenue, ora più maestosa, ma sempre alata e piena di ispirazione.

Anche lui, doveva ammetterlo, non era rimasto indifferente a quell’atmosfera, evocata soprattutto dalla potenza dell’orchestra, dalla compostezza dei ballerini e dalla sontuosità degli abiti delle debuttanti. C’era in effetti una differenza enorme rispetto a quando danzavano in jeans e tuta, ruminando chewing gum, sulla musica gracchiata dagli altoparlanti. Sì, decisamente quella sorpresa tradiva un po’ di emozione. L’unica cosa che non lo sorprendeva era la sgradevole sensazione di avere di fronte a sé, a pochi millimetri dai suoi pensieri più intimi, la voluminosa Nella. Non si muoveva neppure male, poverina. Anzi, paragonata ad alcune sue più avvenenti compagne, dimostrava maggiore grazia e senso del ritmo. “Ti diverti?”, gli chiedeva lei di tanto in tanto con una voce nasale e un alito che sapeva di sigaretta. Lui, che odiava a morte sentirsi chiedere cose del genere, rispondeva “Naturalmente!”, abbozzando un mezzo sorriso e abbassando un attimo gli occhi per incontrare quelli di lei.

Mentre eseguiva macchinalmente i passi necessari per non perdere contatto con la musica e con la sua dama, sondava le coppie che si muovevano intorno a loro, cercando di gettare lo sguardo anche al di là delle danze, per saggiare le impressioni del pubblico. In pista molti dei commilitoni parevano nella sua stessa identica situazione. Concentrati, ma nemmeno troppo, prestavano attenzione a seguire il ritmo, con in bocca un sorriso standard e una risposta pronta per le melensaggini che avrebbero potuto dire le debuttanti: erano quelli che non vedevano l’ora che finisse al più presto l’ambaradan per potersi chiudere in qualche cesso con le ragazze più facili. Si scambiavano cenni e occhiolini maliziosi, e i più audaci allungavano le mani per darsi un cinque, come a dimostrare di aver già catturato la preda.

C’era invece chi viveva
con voluttà quel momento,
inalando a palpebre socchiuse
il profumo di shampoo
all’albicocca che emanava
la nuca della propria dama,
raccontandole confidenze,
lasciandosi scappare risolini eccitati,
con gli occhi lucidi
e le mani inguantate che tremavano.

La cosa più divertente era però osservare quelli a cui in camerata era stato affibbiato il nomignolo di scoppiati. Ovvero cadetti e debuttanti che avevano sviluppato un reciproco interesse, ma che erano stati assegnati a un’altra dama o a un altro cavaliere: nelle mutevoli geometrie che formavano le orbite seguite dai ballerini sembrava quasi che le due metà separate compissero calcoli trigonometrici per trovarsi fugacemente a qualche centimetro di distanza e promettersi cose meravigliose con gli sguardi. Gli scoppiati più interessanti da seguire erano in realtà due scoppiate: Katia e Rosanna, due ragazze lesbiche (non si erano mai dichiarate lesbiche, ma il loro comportamento era inequivocabile), entrambe di Imola, che fino a un paio di mesi prima ignoravano l’una l’esistenza dell’altra. Galeotte furono le prove di ballo e soprattutto i cambi d’abito nello spogliatoio. Un amore a prima vista, delicato e discreto, che si era rapidamente trasformato in una passione morbosa e irta di gelosie. Per qualche settimana di intensi sfregamenti avevano toccato il paradiso, ma adesso la loro storia volgeva brutalmente al termine, distrutta dalle bugie che servivano a salvare le apparenze. Si mormorava che Katia avesse lasciato Rosanna proprio il giorno prima del ballo, perché il suo ragazzo sarebbe venuto ad assistere all’evento, preoccupato com’era che potesse fare la cretina con qualche galletto in divisa. “Ti diverti?”, gli chiedeva soavemente Nella. “Eccome!”, rispondeva lui smettendo per un attimo di guardare il volto triste e furente di Rosanna.

Rivide per un istante il comandante della caserma. Era lì, immobile, con le braccia conserte e il suo sorriso impassibile da gran cerimoniere. Chissà se era davvero soddisfatto di come stava andando la serata. Non c’era che un modo per saperlo. Tutti erano al corrente del fatto che quando il suo orgoglio era solleticato fino a smuoverlo da quella atarassia, il comandante – che ne fosse conscio o meno era impossibile appurarlo – mostrava una vistosa erezione. Evidentemente in quello che potremmo chiamare il suo rigore marziale, o cultura militare, o meglio ancora nella sua sensibilità di ufficiale, la perfetta riuscita di una strategia, così come l’incastro millimetrico di un’organizzazione pianificata nei minimi dettagli, lo esaltava al punto che ne traeva piacere fisico. C’era anche chi giurava di avergli visto i calzoni dell’uniforme macchiati in occasione di un’esercitazione al poligono di tiro, un’esercitazione che lo stesso colonnello aveva definito memorabile. Ma questa era solo un’illazione. Che gli andasse in tiro ogni volta che si sentiva appagato dalla condotta della sua squadra era invece una realtà di fatto. Dunque aguzzò la vista, ma a quella distanza gli fu impossibile stabilire se nei pantaloni del comandante c’era qualcosa di anomalo. Avrebbe aspettato il momento propizio.

Quel momento sembrò arrivare alla terza danza, quando lo stesso colonnello scese in pista invitando una grossa cinquantenne rappezzata da una mezza dozzina di interventi di chirurgia estetica. La donna indossava uno scollatissimo vestito blu elettrico di seta, con sandali d’oro dal tacco vertiginoso e una microscopica borsetta a tono. Le unghie rosso sangue e una quantità pressoché infinita di bracciali e anelli ne facevano risaltare le mani a miglia di distanza. “Sembra una mignotta in disarmo”, commentò lui ridendo, tutto fiero della propria spiritosaggine. “È mia mamma”, disse atona e nasale Nella. Lui la guardò imbarazzato. Ma non vide nella sua espressione tracce di offesa o di biasimo. Doveva lei stessa essere consapevole che al di là del bene e del male la madre sembrava proprio una mignotta in disarmo. Nella gli chiese: “Ti diverti?”, e lui, senza pensarci: “Da morire!”

Per lui fu un attimo di piccola, involontaria complicità. E gli rese in qualche modo più gradevole, o forse semplicemente più tollerabile, la presenza di quella maialotta sudaticcia. Tutto questo mentre già si levavano gli accordi sommessi dei violini e dei corni che annunciavano An der Schönen Blauen Donau, il capolavoro di Strauss. Era un valzer talmente inflazionato che gli organizzatori dell’evento non volevano nemmeno metterlo in scaletta. Ma si diceva che fosse stato addirittura il comandante a insistere per averlo. “Che razza di ballo delle debuttanti è se non suoniamo Sul Bel Danubio Blu?”, aveva ruggito il colonnello rifiutandosi di ripetere il nome dell’opera in tedesco.

Quel valzer era in effetti talmente inflazionato che lo conosceva persino lui: se lo ricordava da 2001 Odissea nello spazio, nella scena di attracco dello shuttle alla base spaziale, e poi gli pareva di averlo sentito in qualche pubblicità alla tele. Insomma, era uno di quei pezzi che ballava se non proprio con più trasporto, almeno con minor tedio. Nella questo lo aveva capito durante le prove, e si preparò a lasciarsi condurre negli undici minuti più belli di tutta la serata.

Dopo l’adagio iniziale appena sottolineato
dai timpani, che ricordavano
un uragano in lontananza,
i flauti e i violini, con un improvviso crescendo,
strapparono in un battibaleno
tutti i presenti dalla gravità terrestre.
Solenne e pomposa la marcia degli archi
e delle percussioni innalzava
con oscillazioni in battere
e levare l’immaginazione
di chi in quel momento
aveva orecchie e cuore per ascoltare.

L’orchestra fremeva, anche lui se ne accorse. Mai aveva provato quel brivido durante le prove. Sentiva gli orchestrali respirare, sentiva il direttore gemere mentre carpiva una ad una le note dagli strumenti dei musicisti per riannodarle nella sinfonia che aveva in testa. Trasformava rivoli di suoni in una cascata di melodie! Lui, impotente, sentiva la musica crescergli dentro i piedi, e nei fianchi e nell’addome, fino a quando non lo invase nel petto e alla base del collo, catturandolo. Aveva la pelle d’oca. Era una tempesta delicata che non accennava a placarsi, una marea di forza immensa racchiusa nello striminzito spazio che lo separava da un corpo enorme. Nella! Se ne era dimenticato. Così come si era dimenticato del comandante e della mignotta in disarmo, dei compagni e degli amici, degli scoppiati e delle lesbiche gelose, e di tutti gli altri sconosciuti che erano venuti a vederlo ballare come un fantoccio.

Però a lui non importava più: l’onda cresceva, e nei flutti che lo circondavano, nella vasta camera blu dove tutto turbinava, non riusciva più a distinguere nulla al di là della musica. Osò guardare davanti a sé e per la prima volta vide Nella. Anche la ragazza sembrava persa nell’estasi, ma era ben vigile: lo scrutava come se stesse aspettando che finalmente anche lui si svegliasse e si accorgesse di lei. La guardò bene in volto, delineandone i contorni, indugiando sulla bocca, dischiusa come in attesa di un bacio. Si soffermò sui suoi occhi, che scoprì verdi e luminosi. Sullo sfondo ogni cosa si confondeva, compressa dall’incedere di quel valzer portentoso, che trascinava con sé corpi maschili e femminili, sensazioni, speranze e ricordi, divise e gonne di tulle in un’unica sconfinata nebulosa di armonie. Nella invece rimaneva lì, immobile di fronte a lui, pur muovendosi vorticosamente rispetto a tutto il resto. In quella dimensione lui e Nella potevano incontrarsi, e forse comunicare. Forse potevano addirittura innamorarsi, chissà. In quella dimensione e in quel preciso momento sicurezza, forma e rigore non gli interessavano più. E Nella, ne era convinto, era un altro essere come lui, capace di sentire. Forse avrebbero continuato a sentire le stesse cose anche dopo che la musica fosse finita…

La musica era finita.

Si spense con un vero trionfo di violini, violoncelli, trombe, piatti e tamburi, condensati fino a diventare un unico moto, che dentro di lui si era sostituito alla furibonda pressione del sangue sullo sterno, sulle tempie e sui polsi. Solo adesso cominciava a percepire di nuovo i battiti del cuore. Del tutto estraniato, si guardò attorno. La giostra si acquietava, dame e cavalieri tornavano lentamente sulla terra, planando nell’elegante inerzia degli ultimi giri di valzer. Comparivano di nuovo le facce, i vestiti, le scarpette e i gioielli. Tutti sembravano esausti, ma in qualche modo felici. Il direttore d’orchestra si scombinava i capelli d’argento con austera e lucida soddisfazione. I musicisti si guardavano come se si volessero congratulare tra loro in un gigantesco intreccio di mani, ma sapevano che sarebbe stato un gesto naif e un po’ pleonastico. Dunque si limitavano ad accogliere con finta modestia gli applausi del pubblico in visibilio chinando lievemente il capo.

Lui tornò agli occhi di Nella, ma non c’erano più. Era voltata verso l’orchestra, e applaudiva energicamente, facendo sobbalzare le sue braccia di salsiccia. Di tanto in tanto Nella cercava di intercettare lo sguardo della madre, agitando la mano in un saluto che si confondeva con quello delle altre debuttanti, pure loro alla ricerca del volto di qualcuno, nascosto altrove nella sala. Lui invece cercò qualche bella parola da dire, o un gesto che desse senso a quel momento, ma non gli venne in mente nulla. Di fronte a sé, dall’altra parte della pista, intravide il colonnello. Istintivamente puntò lo sguardo sul cavallo dei calzoni, ma nella ressa che seguiva la danza non riuscì a distinguere nulla. Anche il comandante dell’Accademia applaudiva, pacatamente, con il suo inalterabile aplomb militare. Eppure lo fissava, sorridendo, e non più con la solita faccia di circostanza, ma con un’espressione che gli parve intensa e partecipe, quasi commossa. Come se fin dall’inizio il comandante avesse saputo ogni cosa.

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