Mimise lo interessava anche per ciò che gliene dicevo. Lombarda, di stirpe signorile, alta, grande e netta come una scultura dell’Amadeo, certa fissità muscolare che connotava il viso di questa statuarietà era il risultato di complesse operazioni subite in giovinezza per essersi fracassata in un incidente, partecipando a corse automobilistiche in circuito agonistico. Era restata mesi immobile, raccontava, e nonostante la disperazione dei chirurghi, incoraggiandoli contro le comprensibili indecisioni, si era fatta rimettere a posto pezzo per pezzo come un motore. Il risultato fu quel viso un po’ statico come quello di un idolo da cui si sprigionava in una sorta di rotondità l’astuzia dell’indimenticabile sguardo azzurro, nel mistero di una imprevedibile ingenuità. I capelli biondi, lunghi, raccolti lisci sulla nuca, lasciavano due bande fasciare le orecchie nella stessa acconciatura del famoso Ritratto di Mimise di Guttuso, donato alla galleria d’Arte moderna di Roma; acconciatura che non ha cambiato mai fino alla morte. Questa testa sorgeva come una porcellana colorata dal grande corpo, con un orgoglio regale.
Eretto e potente, quel corpo, s’è detto,
nel tronco dal seno ampio, non materno,
stretti i fianchi che non reprimevano
la corpulenza del ventre pur sorretti
da gambe dritte, salde, caviglie esilissime.
Il fascino di Mimise, così franco sensualmente, era poi sottile per lucida aristocrazia intellettuale. Se la sua sensualità nel fiero rapporto con Renato, nella dialettica della loro passione, scontri e riconciliazioni roventi nello spazio di un pomeriggio, di una cena, era spregiudicatamente dichiarata, mai il linguaggio di Mimise pur nei più arditi vocaboli, perdeva il controllo culturale, mai un gesto foss’anche spinto al lancio di un oggetto, trascendeva da una sorta di nobiltà, capace di ricomporsi in un sorriso agli astanti, a rassicurarli che non a loro era diretto il suo sdegno.
Pochi legami del resto ho conosciuto più assoluti di quello di Renato e Mimise, e non senza ombre, che i litigi – dovuti sempre e unicamente a reciproca gelosia – erano frequentissimi.
Celebri a questo proposito furono certe colazioni al Buco, il ristorante fiorentino al Collegio Romano famoso per la bistecca, dove i Guttuso puntualmente, ancora poveri, erano di casa. (Mimise aveva lasciato per Renato, venticinquenne al momento del loro incontro, un marito aristocratico e squisito che col tempo seppe essere cortese con Renato stesso). Vi era per tutti quella splendida insegna di bohème che caratterizzò la libertà mentale degli intellettuali del dopoguerra. Conseguenza dello spirito bohémien era una non accurata scelta dei vini, e non sempre al ristorante toscano di allora corrispondeva un buon Chianti, ma più spesso l’economico Frascati. Mimise e Renato ne bevevano un fiasco a pasto. Per anni.
Spesso alla fine del pasto, specie Mimise,
nonostante la sua prudenza, ma chissà forse
proprio in conseguenza di essa,
finiva per stuzzicare Renato, ingelosendolo.
Gran testimone di questo rituale, oltre noi amici più estemporanei, fu Antonino Santangelo, uno degli storici d’arte più validi, antifascista, facente parte con Sandrino e Bruno Zevi del sottosegretariato autonomo alle Belle Arti retto da Ragghianti, nel primo governo Parri. Santangelo era di quei personaggi romani che covano in se stessi Belli e lo continuano, nei loro rimuginamenti, nel mugugno solenne di uno sconsolato quanto illuminato scetticismo.
Gran bevitore di pessimo vino, innamorato perdutamente di Mimise, legato a Renato da un’amicizia fatale, viveva il suo ruolo di eroe russo macerato dal senso di colpa e da quello di furiosa impotenza al rifiuto di essere vittima. E vittima restava nell’implosione di multiple ribellioni che talvolta lo portavano a confessioni non del tutto deferenti verso se stesso, ma neanche verso Renato, trovandosi come si trovava a dover conciliare con lui il triplice rapporto di amico, di critico non sempre convinto del pittore, di innamorato della moglie di lui e, quindi, di potenziale anche se sfortunato rivale.
L’oltraggio peggiore era verso se stesso, per la viltà di non proclamargli le opinioni micidiali che covava verso la sua pittura, magari in quel saggio che nei momenti più foschi si riprometteva di stendere, ma soprattutto per subire la fatalità di quel legame alla sorte di Guttuso fino a innamorarsi della stessa donna. Va da sé che “donna” era sostituito dall’epiteto suggerito dal Belli, epiteto che d’altronde, alla fine dei pasti burrascosi, anche Renato talvolta lanciava a Mimise con voce segreta e turbata, da lei subito sommersa nella provocazione della risata gorgogliante e inarginabile. Era dopo quella risata, in genere, che Antonino vedeva la coppia levarsi dal tavolo e andarsene muta, complice più che ostile, del tutto immemore di lui, con una certa fretta.
Era il momento più duro, ma anche
il più emblematico del suo masochismo.
Sapeva bene e lo sapevano tutti gli amici che erano quelle risse ad arroventare ritualmente lo slancio amoroso tra i due; affrettarsi a rincasare era per effonderlo senza indugio tra lo sguardo divertito dei loro gatti. Non si trattava di intuizione: Renato e Mimise riapparivano ridenti e riconciliati senza mistero per l’attrazione che da anni cementava la loro unione idillica e tempestosa.
Davanti al fiasco di vino personale, Antonino se ne restava solo, i capelli neri spioventi sugli occhiali in una lassitudine disperata, il sorriso ironico rivolto alla tovaglia. Ma l’indomani o la sera stessa, indissolubile, lo si rivedeva insieme alla coppia Guttuso.
Elsa De Giorgi