Il dottor Milillo si avvicina a piccoli passettini. Ha una settantina d’anni o poco meno. Ha le guance cascanti e gli occhi lagrimosi e bonari di un vecchio cane da caccia. È imbarazzato e lento nei movimenti, più per natura che per l’età. Le mani gli tremano, le parole gli escono balbettanti, tra un labbro superiore enormemente lungo, e uno inferiore cadente. La prima impressione è di un buon uomo, completamente rimbecillito. È chiaro che egli non è molto lieto del mio arrivo: ma io cerco di rassicurarlo. Non intendo fare il medico. Sono andato oggi dal malato soltanto perché era un caso d’urgenza e ignoravo l’esistenza dei medici del paese. Il dottore è contento di sentirmi parlare così, e anch’egli, come il nipote, si sente obbligato a mostrarmi la sua cultura, cercando negli angoli bui della memoria qualche antiquato termine medico rimasto là dagli anni dell’Università, come un trofeo d’armi dimenticato in soffitta. Ma attraverso il suo balbettio capisco una cosa sola: che egli di medicina non sa piú nulla, se pure ne ha mai saputo qualcosa. I gloriosi insegnamenti della celebre Scuola Napoletana si sono dileguati nella sua mente, e confusi nella monotonia di una lunga, quotidiana indifferenza. I rottami delle perdute conoscenze galleggiano senza più senso, in un naufragio di noia, su un mare di chinino, medicina unica per tutti i mali. Lo traggo dal terreno pericoloso della scienza, e gli chiedo del paese, degli abitanti, della vita di qui. – Buona gente ma primitiva. Si guardi soprattutto dalle donne. Lei è un giovanotto, un bel giovanotto. Non accetti nulla da una donna. Né vino, né caffè, nulla da bere o da mangiare. Certamente ci metterebbero un filtro. Lei piacerà di sicuro alle donne di qui.
Tutte le faranno dei filtri. Non accetti mai nulla dalle contadine –. Anche il podestà è dello stesso parere. Questi filtri sono pericolosi. Berli non è piacevole. Disgustoso anzi. – Vuol sapere di che cosa li fanno? – E il dottore mi si china all’orecchio, balbettando a bassa voce, felice di aver ricordato finalmente un termine scientifico esatto. – Sangue, sa, sangue ca-ta-meniale, – mentre il podestà ride di un suo riso di gola, come una gallina. – Ci mettono anche delle erbe, e pronunciano delle formule, ma l’essenziale è quello. Son gente ignorante. Lo mettono dappertutto, nelle bevande, nella cioccolata, nei sanguinacci, magari anche nel pane. Catameniale. Stia attento –. Quanti filtri, ahimè, avrò bevuto senza saperlo, nel corso dell’anno? Certamente non ho seguito i consigli dello zio e del nipote, e ho affrontato ogni giorno il vino e il caffè dei contadini, anche se chi me lo preparava era una donna. Se c’erano dei filtri, forse si sono vicendevolmente neutralizzati. Certo non mi hanno fatto male; forse mi hanno, in qualche modo misterioso, aiutato a penetrare in quel mondo chiuso, velato di veli neri, sanguigno e terrestre, nell’altro mondo dei contadini, dove non si entra senza una chiave di magia.
***
Ma quell’altro che sta solo in disparte, quel vecchio sottile dal viso intelligente, è l’uomo più ricco del paese, l’avvocato S. È un uomo buono e triste, pieno di sfiducia e di disprezzo per il mondo dove gli tocca vivere. L’anno scorso gli è morto l’unico figlio maschio, e le sue due belle figlie, Concetta e Maria, da allora non sono mai più uscite di casa, neppure per andare a messa. È l’usanza di qui, almeno tra i signori: se muore il padre le figlie restano tre anni recluse, un anno se muore il fratello. Quel vecchio dalla lunga barba bianca che gli scende sul petto, che fuma vicino all’avvocato, è l’ex ricevitore postale a riposo, compare di San Giovanni del dottor Gibilisco. Si chiama Poerio, l’unico resto di un ramo gaglianese della famosa famiglia di patrioti. È sordo e malato. Non può orinare, e si è fatto magrissimo. Morirà certamente tra poco.
Queste notizie mi venivano date dall’avvocato P., un giovanotto allegro che si era unito al nostro gruppo. Come mi raccontò subito, si era laureato qualche anno prima a Bologna. Non che avesse nessuna tendenza agli studi, né ambizione professionale, tutt’altro. Uno zio gli aveva lasciato in eredità tutti i suoi poderi e la sua casa in paese, a condizione che lui prendesse una laurea: perciò lui era andato a Bologna. La vita goliardica di quegli anni era stata la sua grande avventura. Laureatosi e tornato in paese a godersi in pace l’eredità, aveva sposato una donna più vecchia di lui, e non aveva più potuto ripartire. Non faceva assolutamente nulla, se non cercare di continuare, nell’ambiente paesano, la sua vita di studente. Come passare tutte le ore del giorno, tutti i giorni dell’anno? La passatella, il gioco delle carte, qualche chiacchierata sulla piazza; e le sere trascinate qua e là nelle grotte del vino. L’eredità dello zio l’aveva in buona parte perduta al gioco, a Bologna, prima ancora di esserne entrato in possesso; ora i poderi erano tutti ipotecati, le entrate erano magre, la famiglia cresceva. Ma il buon ragazzo era pur sempre uno studente di Bologna, allegro e scapigliato. Quello che fa tanto chiasso dall’altra parte della piazza è un suo compagno di bevute e di passatella, maestro supplente alla scuola elementare. È ubriaco questa sera, come quasi sempre, fin dal mattino. Ma ha il vino cattivo, e diventa feroce, collerico, rissoso. I suoi urli, quando fa scuola, si sentono in fondo al paese.
Carlo Levi
Dovevi barrare ‘piccoli’ e evidenziare (COME MINIMO) Concetta!
(Ho riletto il mio racconto e ho scritto ‘piccola radiolINA’!)
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Non cominciamo di prima mattina con i ‘dovevi’.
Vabbeh se i piccoli errorini li ha fatti Levi (infatti la De Giorgi, rompicojoni di classe, sottolineava che il romanzo fu pubblicato con un editing discutibile) puoi farli anche te
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