«È bionda» aveva detto la levatrice, ma lei aveva scosso la testa in segno di diniego e gli occhi le si erano fatti lucidi.
«Lacrime al posto del latte?» l’aveva sconcichiata la donna, dando a intendere che forse le stava venendo la malinconia delle puerpere.
«È tanto delicata» aveva commentato Viola, pulendo il naso pieno di moccico della piccola. «Questa al freddo non resiste neanche un’ora», poi se l’era appoggiata al petto senza osare stringerla, e neppure l’aveva baciata, che quando i figli sono cagionevoli è meglio non affezionarsi troppo, non si sa mai nella vita. Per quell’estrema delicatezza l’aveva chiamata Mimosa: nella sua famiglia la tradizione era che le femmine portassero il nome di un fiore. Era la madre a sceglierlo, in base alle caratteristiche fisiche della neonata.
Genziana, per esempio, aveva una carica sensuale primitiva e insopprimibile. Appena nata le era sembrata irresistibile. La boccuccia rossa, un cuore di carne morbida tra due gote tonde, diceva “baciami baciami”. La pelle ambrata, le braccine sode, le mani chiuse in due pugnetti minacciosi, le ciglia fitte che spuntavano tra le palpebre serrate e si arcuavano. Dai suoi capezzoli, due chicchi di caffè marrone scuro tra le pieghe morbide del petto, colava il latte delle streghe, tanto che il padre si era impressionato.
«Succede a tutte le femmine vere: questa darà filo da torcere a tutti» aveva predetto la levatrice.
Giuseppina Torregrossa