Pigrizia e beatitudine


Nel ’32 non era raro il caso di un giovane che diventasse console o ministro per una ragione tanto più accettata come buona, e perfino ammirata, quanto meno fosse chiara. “Il tale non ha fatto concorso” si diceva “non possiede titoli, mastica appena un po’ di francese… e intanto è stato destinato alla Legazione di Vienna come primo segretario: segno che è ben visto in alto loco e farà molta strada!”

Ma i giovani, a cui capitava una tale fortuna, si eran dati un da fare affannoso e avevano ammaestrato così bene il loro cuore che non riuscivano più a innamorarsi di una donna che non fosse “influente” o a diventare amici di un uomo che non fosse “potente”. Tutto quanto era debolezza, umiltà, disgrazia, povertà, suscitava in loro una profonda repulsione.

Antonio invece era rimasto pigro e sincero come il cameriere di un caffè siciliano in un pomeriggio d’agosto, quando, spossata ogni capacità di finzione, e la solerzia diplomatica, e ogni altro genere di solerzia, dall’implacabile scirocco, dissuade il cliente dallo scegliere alcuna cosa nella carta dei gelati, e se poi questo cliente, nonostante l’avvertimento contrario, ordina un “cedro” o un “albicocco”, per noia e per stanchezza il cameriere non glielo porta.

Così egli aveva lasciato passare gli anni, salutando con un brrr! di letizia ogni primo odore di antracite che uscisse dai sotterranei dei palazzi ad annunziare che incominciava il riscaldamento per il nuovo inverno. «Perdio» diceva «quest’anno, eh quest’anno!…» E si stropicciava con forza le mani, poi vi alitava dentro, e infine andava a guardarsi nello specchio di un negozio scoprendo immancabilmente che accanto a lui una donna stava a guardarlo con tenerezza. Antonio socchiudeva gli occhi beato e balbettava: «Facciamo colpo, eh?».


Vitaliano Brancati

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