Scava l’animo come l’acqua indurita del ghiacciaio fa con la montagna. Lentamente, impercettibilmente, inesorabilmente. Ecco un romanzo che si prende tutto il tempo che occorre per contemplare, pensare, descrivere, sedimentare, costruire. Senza artifici retorici, senza scorci segreti sulla psiche umana e senza l’ansia di accalappiare il lettore con finti colpi di scena, di quelli che scimmiottano la vita reale – quelli veri, secondo me, succedono solo nella fiction. Le otto montagne di Paolo Cognetti [Torino, Einaudi, 2016] mi è piaciuto un sacco, pur non essendo il genere di storia che mi piace un sacco. Forse non è nemmeno una storia, ma una condizione esistenziale che prende forma nella graduale presa di coscienza che tutto scivola là dove deve andare, alimentando un mondo di cui non sapremo mai niente fino a quando non saremo disposti ad accettarne le origini. Non sono solo le riflessioni del protagonista e voce narrante, chiamato non a caso Pietro, ma le riflessioni che io stesso mi sono trovato a fare man mano che sentivo affiorare la sua solitudine. Una solitudine radicata nell’infanzia e nel rapporto spigoloso coi genitori, rotta a un certo punto dall’incontro con il coetaneo Bruno, alter ego di Pietro e incarnazione del Grenon, la montagna valdostana dove il protagonista passa le sue vacanze estive. Partendo dall’immaginario paesino di Grana, Pietro e il suo nuovo amico esplorano i dintorni scoprendo una felicità che di nulla ha bisogno, se non di condivisione. Ma la montagna ha anche un altro volto, quello del padre di Pietro che lo costringe a lunghe, estenuanti ascensioni che suscitano ogni volta nel bambino più insofferenza che stupore.
Avevo già imparato un fatto a cui mio padre
non si era mai rassegnato, e cioè che è impossibile
trasmettere a chi è rimasto a casa quel che si prova lassù.
VITE POLARIZZATE
Come un on-off cerebrale, comincia così una storia di luci e ombre a cavallo tra il tempo passato con Bruno a correre per torrenti, ruderi abbandonati e boschi e la vita costretta nella Milano degli anni ’80. Che è tutto fuorché una città da bere per la mamma e specialmente per il papà di Pietro, fuggiti dal Veneto dopo un lutto che ha gettato sul loro quotidiano lunghi silenzi e una nostalgia struggente per le Alpi, interrotti solo dai canti di montagna che intonano ricordando la giovinezza. Bruno invece è l’attesa, la contropartita di mille altre cose che non vale nemmeno la pena di raccontare. Bruno è un’amicizia fatta di gesti, di momenti creati insieme, della scoperta di un padre e di una madre visti attraverso il riflesso di quello che avrebbero potuto essere se non fossero stati condannati a un’infelice esistenza cittadina. Bruno è immutabile, proprio come la montagna, ed è in Bruno e nella montagna che Pietro si rifugia quando l’insensatezza di tutto il resto – che invece cambia pur senza mai intraprendere una direzione precisa – gli divora le giornate.
Cominciai a capire un fatto, e cioè che tutte le cose, per un pesce di fiume, vengono da monte: insetti, rami, foglie, qualsiasi cosa. Per questo guarda verso l’alto, in attesa di ciò che deve arrivare. Se il punto in cui ti immergi in un fiume è il presente, pensai, allora il passato è l’acqua che ti ha superato, quella che va verso il basso e dove non c’è più niente per te, mentre il futuro è l’acqua che scende dall’alto, portando pericoli e sorprese. Il passato è a valle, il futuro a monte. Ecco come avrei dovuto rispondere a mio padre. Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa.
LA SCOPERTA E L’ALLONTAMENTO DAL SE’
È grazie alla montagna e alla presenza sempre più fitta di Bruno nella sua vita famigliare – anche perché Bruno una vera famiglia non ce l’ha – che estate dopo estate Pietro comincia a vedere cosa c’è a monte. E più ne sa, meno vuole saperne.
Era la stagione del ritorno e della riconciliazione, due parole a cui pensavo spesso mentre l’estate scorreva. Una sera mia madre mi raccontò una storia che riguardava lei, mio padre e la montagna, il modo in cui si erano conosciuti e quello in cui avevano finito per sposarsi. Strano impararla così tardi, dato che era la storia di come la nostra famiglia era nata, e dunque di come ero nato io. Ma da piccolo ero troppo piccolo per questo genere di racconti, e dopo non avevo più voluto ascoltare: mi sarei tappato le orecchie, a vent’anni, pur di non sentire ricordi di famiglia, e anche quella sera la mia prima reazione fu di contrarietà. Una parte di me era affezionata alle cose che non sapeva.
***
Bruno disse: – Se mia mamma fosse stata un uomo, allora sì che avrebbe fatto la vita che voleva. Non era il tipo da sposarsi, mi sa. Di certo non con mio padre. La sua unica fortuna è stata liberarsi di lui. – E come ha fatto? – Chiudendosi la bocca. E stando lassù con le galline. Non puoi prendertela troppo con una così, prima o poi la lasci in pace. – Ma te le ha dette lei queste cose? – No. O sì, forse, in qualche modo. Non importa che me le abbia dette, le ho capite da solo. Sapevo che Bruno aveva ragione. Cose simili sui miei genitori le avevo capite anch’io. Cominciò a girarmi in testa quella frase, la sua unica fortuna è stata liberarsi di lui, e mi chiesi se fosse accaduto lo stesso a mia madre. Poteva anche essere, per come la conoscevo. Forse non proprio una fortuna, ma magari un sollievo. Mio padre era stato un uomo ingombrante. E prepotente, e faticoso. Quando era nei dintorni esisteva soltanto lui: il suo carattere esigeva che le nostre vite gravitassero tutte intorno alla sua.
COSA SONO LE OTTO MONTAGNE?
L’unica soluzione è andare via, abbracciare quella solitudine che Pietro ha sempre sentito propria, incontrando nuovi amici, luoghi e donne che – a parte una, e per un preciso motivo – non meritano nemmeno di essere nominati. Mentre proseguono, anche se meno frequenti, le incursioni a Grana, da cui continuano a scaturire descrizioni minuziose del Grenon, delle sue nevi, dei suoi laghi, di Bruno e del suo volto segnato dal tempo, di ogni piccolo dettaglio che diventa la metafora del qui e ora, l’unica dimensione presente nel romanzo. Una dimensione che Cognetti racconta con grande maestria. Quando arriva l’occasione di partire per il Nepal, dove il protagonista potrà conciliare l’attrazione che sente per la montagna e una vita sciolta da ogni legame, finalmente, quasi per caso, Pietro troverà il senso della storia che ha vissuto e raccontato, e che Cognetti ha racchiuso nel titolo del libro. Qual è? Spiacente, non ho alcuna intenzione di togliervi il gusto di scoprirlo seguendo il sentiero che vi condurrà là, in alto.
Guardava il Monte Rosa e disse: – Ti ricordi quella volta con tuo padre? – Certo che mi ricordo. – Io ci penso ogni tanto, sai? Il ghiaccio di quel giorno sarà arrivato in fondo? – Non credo. Dev’essere ancora a metà strada. – Anche secondo me. Poi chiese: – L’Himalaya ci assomiglia un po’? – No, – risposi. – Per niente. Era difficile spiegargli perché, ma volevo provarci, e aggiunsi: – Sai quegli enormi monumenti crollati, come a Roma, ad Atene? Quei templi antichi di cui rimane solo qualche colonna, e per terra le pietre che erano i muri. Ecco, l’Himalaya è come il tempio originale. Come poterlo vedere tutto intero dopo che per una vita hai visto solo rovine.
Dopo questa recensione, non posso assolutamente non leggerlo. Perché se Cognetti ha comunicato l’amore per la montagna, tu sei riuscito a ritrasmetterla con forza. Chi ama la montagna diffida di chi non la conosce.Perché è un amore davvero viscerale, spontaneo, che è strano da spiegare. Lo vedi con me: se parlo di montagna, mi brillano gli occhi (me lo hai detto quando ci siamo conosciuti), ma a volte la montagna è frustrazione quando perdi la sfida dopo tutta quella fatica. Devi essere disposto a sudare, ma quando sei in vetta sei sopra a tutto e non conta più niente. Hai centrato il senso di tutto con la prima citazione: chi resta a casa non potrà mai capire cosa si prova lassù.
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grazie dolce, non vedo l’ora di sapere cosa ne pensi tu
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Cognetti è uno dei pochi autori italiani contemporanei che gode di tutta la mia stima. “le otto montagne” però non valgono “Sofia si veste di nero”, almeno a mio modo di sentire. sarà perché fin da neonato con la montagna ci siamo dati del tu (ergo ribadisco, è un mio problema personale), ma resta il fatto che l’ultima opera del nostro non è riuscita a comunicarmi emozioni nuove o ad “arricchirmi” come altre sue fatiche (sì, insomma, “low novelty” direbbe il referee storcendo il naso).
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allora corro a leggermi Sofia! grazie per essere passato e per il consiglio
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L’ha ribloggato su LIBRIMPROBABILI.
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