I libri degli scriventi. O dei dilettanti. Ne ricevo, più o meno, una dozzina al mese, quindi, se per un paio di mesi ho lasciato tavolo e sedie in abbandono, vuol dire che ne avrò più di una ventina da considerare e, quando lo faccio, i miei sentimenti sono contesi da irritazione e tenerezza. L’irritazione viene prima, necessaria e inevitabile, mi afferra ogni volta che leggo spropositi o spaventose ingenuità che d’istinto vorrei correggere con la matita blu. Ma dopo un po’, tutti quei tentativi falliti, tutte quelle parole fuori bersaglio, tutti quei libri destinati a sfiorire nell’istante stesso in cui vengono scritti mi soffiano dentro una nota di tenerezza che abbraccia a un tempo sia me stesso sia l’autore sconosciuto che sto leggendo in quel preciso momento.
Quando si legge, un mondo viene trapiantato in noi e noi veniamo trapiantati in quel mondo: è l’incantesimo di una scrittura riuscita, senza il quale, a rigore, un libro non è un libro. Eppure, dietro il fallimento, dietro questi non-libri, rimane la potenza del gesto di chi li ha scritti; uomini e donne che, come me, magari avranno impiegato anni per mettere insieme cinquanta poesie, che avranno mobilitato l’intero ventaglio delle proprie risorse – non importa quanto inadeguate – nel tentativo di consegnare al mondo l’incantesimo della scrittura riuscita. E anche se l’incantesimo non è riuscito e resta soltanto la caduta, quella caduta è contemplata e include me. È un fatto indispensabile perché è un fatto umano e il giorno in cui l’uomo cesserà di comprendere per via di parola se stesso e il mondo, sarà ricondotto alla sua sostanza bruta di animale, padrone soltanto dei suoi grugniti che taglieranno il vuoto risonante del suo stesso silenzio.
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E, infatti, la matita comincia subito a lavorare, cerchio con diligenza le parole e le espressioni che non mi piacciono, con un gesto di modestia e superbia insieme. In questi casi non mi è difficile scovarle, tutti questi libri sono legati da un riverbero suscitato da un corredo di parole che, in definitiva, si ripete più o meno identico: “rugiada”, “incedere”, “alfine”, “viandante”, “cristallo” (accoppiata di solito a “sogno” o “silenzio”), “arcobaleno”, “infinito”, “aquilone” e via così, secondo una norma soggetta a poche variazioni.
Il punto è che sono parole cieche e senza carne, non gettano nessuno sguardo sulla realtà, perché da tempo ne hanno persa la presa; con le porte e le finestre sbarrate, nemmeno Arsenio Lupin sarebbe capace di scassinarne le serrature per far circolare un po’ d’aria al loro interno.
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Così come in Tex Willer la pioggia è sempre “battente”, il riposo “ristoratore”, la bistecca “alta tre dita” e il pasto “frugale”, in poesie come queste il respiro è “tremante”, si corre “a perdifiato”, i sogni sono “sgualciti” o “infranti” quando si piange la perdita di un amato, mentre l’amore soffia su tutte le pagine un “alito d’infinito”.
La differenza – sostanziale – è che dopo una cavalcata di giorni nel deserto del Nevada, sulle tracce di pericolosi banditi, dopo tutti i pasti frugali consumati alla luce fioca dei bivacchi notturni, dopo averli trovati, i banditi, affrontati e sgominati, una bistecca alta tre dita è sacrosanta. E il lettore di Tex l’aspetta quanto il ranger come il segnale liberatorio della fine della storia, coccolato da un processo di lettura seriale. Ma il concetto di luogo comune non è applicabile quando si scrivono versi: perché la poesia è il luogo dell’inatteso, del lapsus, dello sguardo che concepisce il mondo con la coda dell’occhio e crea un ordine di esperienza nel momento stesso in cui l’esperienza dà forma alla poesia. Nei testi dei dilettanti, invece, lo sguardo rovescia la poesia nel suo contrario, diventa il luogo dove tutto è già stato visto, anche ciò che è ancora da vedere.
Il risultato è un’innocenza
che rimane al di qua dell’innocenza.
Non esiste altro lessico se non il tuo, in poesia; e quel lessico deve accordarsi con lo sguardo tuo proprio, deve intrecciarsi alla relazione che il tuo sguardo stabilisce con i tuoi sensi e che i tuoi sensi stabiliscono con il mondo, finché il lessico stesso, le parole stesse, diventano relazione. Un intreccio da cui una forma di verità molto parziale, la tua, si sviluppa e cresce con il tuo respiro.
Pierluigi Cappello
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.
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Proprio così! Quanto è difficile dar voce al vero evitando il cliché delle belle parole infiocchettate
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già. niente di peggio, per aggirare lo sforzo o la mancanza di consapevolezza, che mettere insieme un po’ di espressioni altisonanti e chiamarle poesia.
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