Compagni di viaggio su un aereo per la Russia


E poi, sul volo da Francoforte a San Pietroburgo, il destino ha voluto che fossi seduto accanto a una coppia di Cleveland che stava andando in Russia per adottare una bambina di otto anni. La bambina, mi hanno detto, era stata abbandonata dalla famiglia, gesto che l’uomo attribuiva al passaggio «da una società comunistica a una capitalistica». L’ha detto con una certa enfasi. In effetti era una persona enfatica, così come alcuni di noi sono tenori o baritoni, e dato che avevo il posto vicino al finestrino e mi sentivo in trappola ho cominciato a provare insofferenza nei suoi confronti.

Ogni cosa che diceva
mi si appiccicava addosso.

Mi ha fatto un sacco di domande aggressive e brusche, mirate a stimolare risposte semplici, un sì o un no. Non era una conversazione: stava semplicemente battendo l’aria come si batte un tappeto, sperando di ripulirla da ogni traccia di dubbio o ambiguità. Io continuavo a chiedermi, per qualche strano motivo, se fosse un avocat; cioè mi chiedevo se fosse un avvocato, ma usando mentalmente la parola francese. Per tutte le tre ore di volo mi sono sentito come se fossi chiuso a chiave in una stanza per gli interrogatori.

La moglie sembrava gentile, dolce e ossequiosa, con un mento sfuggente che vanificava la sua chance di essere veramente bella. Ogni volta che la guardavo in faccia mi sentivo perso.

Era dotata della gentilezza pimpante
e noiosissima tipica delle persone
ben intenzionate, che sembra ipocrita
finché non ci si rende conto
che non nasconde nulla.
È reale e basta.

Era una donna simpatica. Quando mi ha chiesto cosa andavo a fare in Russia ho dato una risposta del tutto sconclusionata, e una volta che il marito, l’avvocato, ha capito che tipo ero, ha davvero cominciato a martellare l’aria di domande. Ora ero sotto processo. Mi sono ritrovato in piena confusione, quasi spasticamente incapace di formulare frasi di senso compiuto, e non ho saputo descrivere ciò che stavo facendo con uno stile narrativo soddisfacente. Quando siamo atterrati, ormai il motivo del mio viaggio era diventato una vergogna, un mio errore: ero colpevole. Loro viceversa, i coniugi di Cleveland, avevano una storia su cui, come uno strato viscoso di mucillagine, si stendeva la bontà. Avevo appena letto qualcosa proprio a questo proposito durante il volo da Chicago a Francoforte, in un articolo erudito sui disturbi dell’attaccamento e della mente nelle prime fasi dello sviluppo – mia sorella pensava che potesse interessarmi, dovendo andare a osservare degli orfani – in cui l’autore parlava di un tizio di nome Grice e delle sue quattro massime per una conversazione corretta:

1. Qualità: dire il vero e avere le prove di ciò che si dice.

2. Quantità: essere succinti.

3. Relazione: essere pertinenti o perspicaci, presentando ciò che si ha da dire in maniera che venga capito facilmente.

4. Modo: essere chiari e ordinati.

A quanto pare, violare uno qualunque di questi precetti è sintomo di problemi mentali, e io avevo appena fatto fiasco su tutti e quattro i fronti. Ma i coniugi di Cleveland erano in pratica due apostoli di Grice. Ecco perché stavano adottando un bambino: perché avevano in mente una storia.


Charles D’Ambrosio

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