Dolore, dissacrazione e inconcludenza: così nacque Il primo Dio


Poche volte capita di assistere alla germinazione della follia sin dai primi, delicatissimi momenti dell’infanzia. Li chiamano anni verdi, dove grazia e amore e spensieratezza nascondono agli occhi dei bambini la natura del mondo e il concetto di sofferenza. Non così fu per Emanuel Carnevali, al secolo Manuel Federico Carlo Carnevali. D’altra parte il suo sgangherato romanzo autobiografico Il primo Dio, che racconta le vicende che portarono lui, migrante italiano senza arte né parte, a diventare portavoce dell’America del primo ‘900, avverte subito il lettore di cosa si parlerà per tutto il libro: caos, privazione e tanti calci nelle gengive, sia metaforici sia reali. La giovane vita di Carnevali, nato a Firenze nel 1897 e cresciuto a cavallo di Piemonte ed Emilia Romagna, comincia pressapoco in questo modo:

Mai una volta ho visto mia madre che non fosse ammalata. Era morfinomane: s’era assuefatta all’uso della droga terribile dopo aver laboriosamente partorito questo squallido campione, me.

Mio padre, che dovevo vedere soltanto all’età di undici anni, viveva separato da lei (questo era naturale e abbastanza comprensibile). Quando stavano insieme lui trovava qualsiasi pretesto per insultarla o picchiarla. Una volta la povera donna tentò di suicidarsi, buttandosi dalla finestra. Lui l’afferrò in tempo. Mio padre era ed è tutt’ora il più ignobile degli uomini.

La sua vita con lui era una sofferenza continua. La morfina la teneva addormentata o semi-addormentata per tre quarti del giorno. Ma non era un sonno tranquillo. Fu mia zia a parlarmi della feroce gelosia di mio padre. Una volta picchiò mia madre perché aveva i capelli spettinati dopo una mezza giornata passata a stirare. Un’altra volta la picchiò per strada con un bastone da passeggio, perché si era chinata ad allacciarsi una scarpa.

Un primo stralcio che ben introduce uno stile di scrittura dissestato, claudicante, pieno di salti logici e cronologici che spesso rendono la narrazione simile al concitato racconto di un bambino che ne ha appena viste di cotte e di crude. Ma in fin dei conti Carnevali è stato prima di tutto questo, per l’intera sua esistenza: un bambino senza amore e senza giudizio incapace di discernere negli altri e in se stesso il bene dal male. Dopodiché è stato un poeta. Un poeta nella vita e sulla pagina, reietto in entrambe le dimensioni e per questo ancora più voluttuoso nel narcisistico ripiegamento sul proprio ego. Una spirale che non riuscirà a precludergli l’affetto e l’ammirazione di tanti artisti della sua epoca, ma che lo porterà in breve tempo alla follia e a un ritorno forzato nella dolce Italia. Il primo Dio è infatti un romanzo pubblicato postumo, scritto da Carnevali durante la convalescenza nella clinica neurologica di Bologna, sua ultima dimora prima di una morte precoce dovuta essenzialmente al logoramento dei nervi. Qui sta secondo me la magnificenza dell’opera: come una proiezione sui candidi muri dell’ospedale Carnevali rivede il film della propria vita, una pellicola che a volte si inceppa, altre volte si strappa, si sofferma su alcuni dettagli insignificanti da cui però scaturiscono la poesia, il sarcasmo, l’ironia feroce (che adoro), mai l’autocommiserazione. Del resto, questo inconsueto autore è pienamente consapevole che la sua è stata una esistenza eroica, pur racchiusa nel nichilismo, nell’indolenza, nell’incapacità di conferirle un senso.


L’INSUCCESSO COME STILE DI VITA

La scelta di lasciare l’Italia matura a 16 anni, dopo essere stato espulso dal Collegio Marco Foscarini di Venezia (città che Carnevali porterà sempre nel cuore anche per l’esaltante storia d’amore vissuta con Giovanni, suo condiscepolo) ed essere ritornato a vivere con l’odioso padre. Meglio partire, meglio l’ignoto di tutta questa disperazione. Dopo una traversata di venti giorni sul piroscafo Caserta, la New York del 1914 – ancora spoglia dei suoi grattacieli e dell’alone di successo e speranza che avrebbero accolto negli anni successivi milioni di migranti – si rivela un labirinto grigio e alienante in cui l’assillo è uno solo: riuscire a mangiare.

Avevo 55 centesimi e un’agenzia di collocamento voleva un dollaro, per trovarmi un posto da quattro dollari la settimana. Mi rivolsi a Morea: andai a piedi fino alla 128th Street, dove spesi cinque centesimi per una birra. Morea dormiva il sonno dell’ingiusto e quando gli chiesi un dollaro in prestito me lo rifiutò… Me ne andai e discesi gli scalini della prima fermata della metropolitana che trovai: mi aspettava una sorpresa: il bigliettaio respinse i miei cinquanta centesimi dicendo, e anche con voce minacciosa, che non erano buoni. Disperato, mi rimisi in cammino, per tornare alla mia lurida stanza. Aveva cominciato a piovere. Finalmente un’anima buona mi trovò un lavoro in un ristorante italiano, come aiuto-cameriere. Fu il primo lavoro della mia vita. Era un ristorante a prezzo fisso della 8th Street, vi lavoravo diciassette ore al giorno e ritornavo stanchissimo alla mia stanza per sognarvi piatti, piatti e ancora piatti. Lavoravo con tutto l’entusiasmo del neofita; ero allegrissimo e orgoglioso, perché lavoravo per la prima volta. Correvo come un matto da un piano all’altro. Facevo da garzone ai camerieri e il mio lavoro era quello di apparecchiare e sparecchiare i tavoli. I camerieri erano sei o sette e io dovevo aiutarli tutti.

Il lavoro era per me una gioia e insieme un terrore. Solo a pensarci stavo sveglio la notte. Per quattro giorni ero quasi morto di fame in quella stanza della 12th Street e il pensiero di perdere il lavoro mi portava alla disperazione. Mi buttai sul lavoro anima e corpo, sgobbando come un somaro e sognando, la notte, pile infinite di piatti. In quel tempo feci, per la prima volta, la conoscenza delle cimici. Sebbene l’Italia sia sporca, molto sporca, mai vi avevo visto le cimici, mentre ora interi battaglioni di cimici tormentavano le mie notti. New York è spietata con i miserabili.

Il mio lavoro era il mio delirio, il mio amore senza amore. I miei compagni erano una manica di implacabili idioti, una pidocchiosa schiera di crumiri. Erano pidocchiosi per lo sporco che il lavoro inevitabilmente produce. E poi la gente ha il coraggio di dire che il lavoro non sporca le mani! Invece nulla le sporca più del lavoro e nulla uccide di più la coscienza, che non può sopportare lo sporco. Quegli idioti si vantavano con me qualche volta d’essere riusciti a mantenere lo stesso lavoro per cinque, dieci anni e anche di più. Rabbrividivo nell’udirli: che bestialità, che cosa terribile! Avevano perfino proibito alle ragazze italiane di cantare mentre erano al lavoro. Avevano tentato di soffocare quel bel fuoco che ardeva nelle canzoni delle ragazze italiane. Il mio lavoro era la mia via crucis, la mia miseria, il mio odio. Eppure vivevo nel continuo terrore di perderlo, quello schifosissimo lavoro. Ecco dunque, il mio primo lavoro fu in un ristorante italiano a prezzo fisso, poteva intendersi come una specie di blando purgante per intellettuali borghesi. Fui licenziato nel giro di un mese.


Inizia una carambola di occupazioni, che durano il tempo necessario a far scoprire ai datori di lavoro che il nuovo assunto è pigro, distratto, fondamentalmente un incapace. Eppure è proprio durante questo supplizio che Carnevali prima di tutto impara la lingua inglese, e poi comincia a servirsene per dare voce alle immagini che scaturiscono dalla misera umanità che lo circonda. Niente sfugge al suo sguardo dissacrante. Nemmeno l’amore, nemmeno le donne che in qualche modo riescono a concedergli qualche momento di serenità, a partire dalla moglie.

Era una piccola donna benedetta, mia moglie: benedetta per la canzone che le rideva sulla faccia, benedetta per tutte le sue disgrazie. Benedetta perché era tanto piccina e il suo amore così grande, così disperato; il suo amore si reggeva soltanto su di me. Aveva una voce dolcissima, a suo modo sensuale, graziosa come il cinguettio di un uccello. La sua voce era la sintesi di molti splendori. Eravamo come due rimbambiti, quando ci baciavamo in piena Broadway.

Ricordo il suo volto estatico, un’estasi che durava pochi minuti. L’amore era per lei una specie di frenesia e nell’esprimerlo rivelava un qualcosa di rabbioso. Era come se sul volto le si dipingesse l’anima. Dolce era, più dolce di quanto abbia mai saputo esserlo prima o anche dopo. Piangeva profusamente; in realtà non passava giorno, senza che lei venisse da me a piangere. Dapprima quel suo pianto mi fece sprofondare in un’agonia di compassione, poi mi ci abituai, alla fine non potei più sopportarlo. (Una volta fece piangere anche me perché criticò le mie scarpe scalcagnate). Maledizione, non c’era cosa che non le desse una buona occasione per piangere. Aveva un’incredibile riserva di lacrime da versare, e la cosa finì col diventare ridicola.


FAME, POESIA, ALLUCINAZIONE

Nella grande mela bacata, Carnevali entra in contatto anche con altri sbandati, altri aspiranti artisti che come lui inviano i propri versi alle riviste letterarie più per mettere insieme qualche dollaro da spendere in bisbocce che per ottenere la gloria. Si forma così, quasi involontariamente e senza alcun manifesto, un circolo culturale intorno al quale ruotano i peggiori balordi di New York, che condividono materassi pieni di cimici e squallide camere arredate, pasti a base di maiale e cotiche (scambiandosi quei piccoli favori che possono fare la differenza tra la vita e la morte in una notte sottozero) e ispirazione poetica, dando vita a un’avanguardia da cui sarebbero emersi mostri sacri della letteratura americana, come Max Eastman, Ezra Pound, Robert McAlmon, William Carlos Williams e Sherwood Anderson. Ma è a Louis Grudin che Carnevali dedica forse il più bello dei tanti ritratti che dipinge riavvolgendo il nastro dei ricordi.

E parlando d’amore, debbo qui parlare del più caro amico della mia vita: Louis Grudin. Non era un bel ragazzo: i suoi lineamenti erano tagliati rozzamente e il naso informe, anche la bocca, le labbra troppo grosse, gli occhi incerti, non brutti però; l’andatura sproporzionata, la voce un rombo, il cappello fuori moda e brutto, i pantaloni senza piega, con le borse alle ginocchia, la giacca informe, le maniere rozze ma non scortesi, il cuore buono e grande, il senso dell’ironia forte, il senso dello humour sottile e sempre all’erta, i suoi amori sfortunatissimi, la sua bella una ridicola ragazza grassa alla quale credeva come a un oracolo; il suo aspetto, vestito da militare, imponente, ma non allarmante, il suo amore per il chiasso, e la sua stessa chiassosità, il disgusto per il sesso e l’amore per il caffè (un caffè rosso e bollente che inghiottiva con grande coraggio), la sua estrema purezza per ciò che riguardava il sesso, le sue idee rivoluzionarie in amore e in politica, per il suo paese, il suo governo, il suo essere un ebreo lituano – tutte queste cose lo facevano qual era. (Nell’amicizia con ebrei io mi trovo curiosamente a mio agio. Nulla può uguagliare la loro intelligenza, la loro ospitalità – incompresi, disprezzati, trattati dall’alto in basso, sono invece persone a posto e belle, anche. Bisogna avere la sensibilità estetica di un barbiere per sostenere che sono brutti!).

Lou, ragazzone grande e grosso e grasso, che scoppiavi dentro la tua uniforme di soldato! Insieme mandavamo in frantumi l’universo, conquistavamo il mondo, anzi i mondi! Eravamo i padroni della strada, quando vi camminavamo di notte. Cantavamo Winter Sturme Wiechen denn wonne Mond, senza tanto curarci della grammatica tedesca. Certe volte camminavamo tutta la notte, gridando le nostre idee alle stelle e alla luna, tremendamente felici di essere così intelligenti e terribilmente orgogliosi della nostra intelligenza, redentrice dei nostri corpi, che giustificava e sublimava questa nostra vita.

Ogni volta che passavamo sotto il Woolworth Building, Louis Grudin si toglieva il cappello in segno di rispetto. Lou mi piaceva tanto perché pensavo che fosse un’edizione riveduta e corretta di me stesso. Invece eravamo così diversi come il pane è diverso dal burro, pur essendo alimenti tutti e due. Le poesie che scriveva erano più belle di quanto volesse credere. C’erano dentro ritmi larghi, maestosi, e una certa grazia, un sicuro umorismo. Mi chiamava ‘maestro’ e ‘professore’, ma se io gli ho fatto conoscere Rimbaud e Laforgue, lui mi ha fatto conoscere la letteratura americana. Gli dicevo che assomigliava al Jean-Christophe di Romain Rolland e lui mi rispondeva che diventavo sentimentale.

Nella mia memoria, Lou, tu occupi lo spazio di un intero cielo. Mi sono dissetato e sfamato di te. Avevo per te un’ammirazione sconfinata, seppure incoerente. Benché tu mi chiamassi ‘maestro’ ero io che imparavo da te, sempre. La tua forza, la tua virilità, la tua energia tu le spargevi a piene mani. Con grande umiltà riconosco tutto quello che hai fatto per me. Sì, mio caro, la tua amicizia era per me una cosa grandissima. Sapevo di esserti inferiore e tu una volta scrivesti in un libriccino: «Aveva paura di me e il suo letto era sporco».


Va comunque dato atto all’America di essere sempre stata quella terra di opportunità di cui si favoleggia. E, contro ogni aspettativa, Carnevali si fa strada nell’ambiente letterario dell’East Coast, riuscendo a mettersi in luce tra gli editori e addirittura conquistandosi un posto di lavoro come vicedirettore della rivista Poetry Magazine. Un impiego che naturalmente durò solo pochi mesi, ancora una volta per l’immedicabile incapacità di Carnevali di costruire e mantenere in vita qualunque cosa lo distraesse dalle sue allucinazioni, che lo porteranno, dopo la parentesi di Chicago, a vivere come un eremita sulle rive di un lago nell’Indiana. Ed è seguendo quel bagliore di follia, quel richiamo irresistibile che si fa sempre meno miraggio e sempre più riflesso di una personalità, che la malattia mentale esplode in tutta la sua virulenza, portando l’uomo, in un momento di sconfinata lucidità, a identificarsi con Dio, il primo Dio per l’appunto, e a competere sul piano dell’immaginazione con quanti altri, prima di lui, avevano raggiunto l’illuminazione:

Il grande errore di Cristo era stato quello di dire:
«Il mio regno non è di questo mondo»
e poi di fare di tutto per provare, e provando,
con i miracoli, che il suo regno
era realmente di questo mondo.
Finché gli dèi non avevano avuto bisogno
di fare miracoli, mi venne in mente,
c’erano stati sicuramente più dèi
di quanti la gente avesse immaginato…
un’intera, nuova mitologia o storia del deismo.
Perfino i realisti erano dèi di una certa specie.


LA (S)FORTUNA POSTUMA

L’epilogo è quello anticipato: gli amici, quelle persone che inspiegabilmente amavano un uomo tanto bizzarro e difficile, pagano per lui le cure, lo rispediscono in Italia per reinserirlo in un ambiente che potesse favorirne la guarigione, addirittura vanno a trovarlo a Bazzano (oggi comune di Valsamoggia), località dove trascorse gli ultimi vent’anni (morì nel 1942) e che oggi ne onora il nome facendosene bandiera con iniziative culturali a lui dedicate. Ed è proprio a casa (anche se la lingua rimarrà l’inglese) che si abbevera la sua vena creativa, attingendo all’opera d’arte che aveva creato vivendo prima di essere rinchiuso tra le pareti dell’insania mentale. Come questo romanzo, apparso in Italia nel 1978 grazie alla traduzione della sorellastra Maria Pia (e da pochissimo riproposto con una nuova edizione da D Editore), praticamente tutta l’opera di Carnevali è stata pubblicata postuma. Al di là di qualche verso segnalato su un paio di riviste, l’autore vide data alle stampe solo la raccolta Tales of an hurried man, di cui è uscita nel 2005 una versione italiana col titolo Racconti di un uomo che ha fretta. Si devono invece a Gabriel Cacho Millet l’edizione di Voglio disturbare l’America [Firenze, La casa Usher, 1980], la raccolta delle lettere che Carnevali scrisse da New York a Benedetto Croce e Giovanni Papini, nonché il volume Saggi e recensioni e il Diario bazzanese. Fatta eccezione per la raccolta Ai poeti e altre poesie e Corteo di personaggi a Villa Rubazziana, si tratta purtroppo di una produzione di difficile reperimento. Ma Il primo Dio c’è, si trova dappertutto e costa pure poco. Quindi te lo devi leggere. Altrimenti Emanuel Carnevali che è vissuto a fare?

8 pensieri su “Dolore, dissacrazione e inconcludenza: così nacque Il primo Dio

      1. Io credo che ti piacerebbe tanto quello di Giuseppina Torregrossa. Lo sto centellinando come si gusta una tazzina di caffè, non a caso visto che ruota intorno al caffè, e anche se non l’ho ancora finito, mi sembra veramente scritto benissimo. Non mi pare che l’autrice sia conosciutissima, e secondo me dovrebbe esserlo molto di più, come credo neanche Carnevali. Io non lo conoscevo prima che me ne parlassi.

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