Mentre corro


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Un passo dopo l’altro. Spingo la fatica saltellando dal piede sinistro al destro come trotterellassi sui carboni ardenti. I polpacci si ingrossano, mi pare che scoppino, le ginocchia scricchiolano senza far rumore e tutto il corpo me lo sento addosso come uno stantuffo sballonzolante. In questo momento non sono più nemmeno io, ma solo un ammasso di carne che implora col rossore e il sudore la fine di un supplizio. Ma chi cazzo me lo fa fare. Guardo le anatrelle del naviglio Martesana. Le uova si sono schiuse da qualche giorno e i pulcini sono già tutti in acqua come paffute perle di un rosario sgranato. Chi più sciolto, chi più goffo alternano scatti rubandosi le scie e seguono senza protestare la mamma che in totale indifferenza li porta controcorrente. La vita è sofferenza, belli miei, continuate a muovere quelle zampe e forse avrete qualche chance.

Se ce la fanno loro,
devo farcela pure io, porca troia.
Avanti.

Scialano al mio fianco veterani del running, busti che planano su gambe reattive come molle, figure lievi come anime che non sbuffano, non respirano, non emettono suono nemmeno quando le suole delle scarpe sfregano sull’asfalto. Giovani e vecchi, tutti accomunati dall’età che dimostrano le prestazioni. Li invidio. Ognuno ha un suo stile peculiare: c’è chi avanza a grandi falcate, ondulando appena il collo e spingendo la testa in avanti a ogni colpo, una specie di moto predatorio da felino dell’hinterland. C’è chi pare correre sul posto, con il movimento meccanico delle gambe che facendo leva sul ginocchio produce un’andatura estremamente efficiente ma forse un po’ ridicola. Ci sono gli esibizionisti e le esibizioniste: i maschi a un certo punto, anche a dieci gradi, si tolgono la maglietta e rimangono a petto nudo, con gli addominali lucidi e scolpiti, talmente ben in evidenza che li si vede pure nell’ombra che proiettano per terra. Le femmine diresti che sono appena uscite dal set di un film porno – genere gonzo per chi se ne intende – nelle loro striminzite uniformi fucsia e nere. Siamo lontani anni luce dalle fashion blogger e dalle starlette di Instagram che si fanno i selfie davanti alle fontane e ai cocktail di piazza Gae Aulenti, ma questa è la provincia (o meglio la conurbazione) e si fa quel che si può. In ogni caso, sono talmente concentrato sulla mia sopravvivenza che persino le più gnocche mi sono del tutto indifferenti.

Ci sono gazzelle e antilopi, attempate giraffe,
pony e addirittura rinoceronti che nonostante
il loro spessore muscolare e la natura tarchiata
avanzano inarrestabili e vanno pure forte.

Percepisco queste forme arrivare alle mie spalle, come ombre, come presenze ovattate che impercettibilmente quanto inevitabilmente mi raggiungono, mi superano e guadagnano sempre più vantaggio fino a sparire lungo la linea di fuga del naviglio. Io dal di dentro, tra sbuffi, sobbalzi, organi che paiono mantici e il mio peso inerte, mi vedo come una decrepita locomotiva a vapore arrancante in un paesaggio che non cambia mai.

Se esco all’ora di pranzo mi capita di incrociare gli impiegati delle ditte che hanno la sede qua nei dintorni. Tornano dalla pausa in qualche ristorante o pizzeria. Anche se questa fama si è un po’ appannata da quando molte imprese hanno deciso di trasferirsi in centro a Milano – laggiù dove svettano i nuovi grattacieli, visibili fin da qui nelle giornate terse – la zona in cui corro io viene chiamata, ironicamente, “Martesana Valley” in ossequio al fatto che ospita diverse filiali dei colossi tecnologici nati nella ben più celebre “Silicon Valley”. Così si schiudono al mio passaggio piccole comitive di ingegneri con la cerniera del maglioncino tirata su anche a giugno e la penna appuntata al taschino della camicia, gli occhiali che specchiano i raggi solari. Parlottano tra di loro, qualcuno scherza, qualcun altro si lamenta. Immagino l’estensione della loro routine oltre quel rapido incrocio di passi. Una vita tranquilla, fatta di stress abbordabili, di imprevisti gestibili e seccature e buone sorprese che spezzano di tanto in tanto quell’andatura. L’andatura dei giorni sempre uguali. Una moglie, uno o due figli, magari un cane da portare a spasso la sera come pretesto per mollare tutto anche solo per mezz’ora e immaginare di aver fatto scelte diverse cinque-dieci-quindici anni fa. Quando mi vedono dappresso mi guardano con pietà. Io cerco di contrattaccare osservandogli di sbieco le panze prominenti appena uscite dalla pizzeria o geneticamente immuni a qualsiasi attività fisica. Ma adesso, in questo preciso momento delle nostre esistenze, lo scontro è impari: hanno ragione loro. Loro sono paghi e felici, io sono un moncherino che saltella, un indemoniato che trascina macigni invisibili. Tiro dritto, arrivo a casa e mi faccio due etti di spaghetti aglio olio e peperoncino, penso.

Se sopravvivo, me li merito cazzo.
E ho come l’impressione che gli ingegneri
mi indovinino il pensiero.

Ci sono più avanti, seduti su una panchina, il lui e il lei di una coppietta: testa contro testa non si stanno baciando. Sembrano piuttosto contare i soldi sui palmi delle mani. Forse quelli che gli servono per andare in un motel, fantastico io. Hanno sicuramente bigiato, data l’ora, e l’aria colpevole felice e ansiosa da adolescenti rivela le loro intenzioni. Io non le ho mai fatte queste cose. In primo luogo perché al liceo non avevo una ragazza, riuscii ad acchiapparne una per il rotto della cuffia proprio l’ultimo giorno di scuola. A dire il vero fu lei ad acchiappare me: avevo 19 anni e lei 15, ma tra i due chi conduceva il gioco non ero io. Infatti mi mollò ancora prima degli esami di maturità: doveva partire per le vacanze in Sicilia, sua terra d’origine piena d’amici e amorazzi, e voleva avere le mani libere. Non me lo disse mai in questi termini, ma lo capii perché al ritorno mi richiamò. Io nel frattempo mi ero messo con un’altra ragazza e la rimbalzai gongolando d’orgoglio.

Ancora oggi penso sia stato l’errore
più grande della mia vita.
Ma tant’è.

Passo davanti ai due ragazzini e mi chiedo quanto dureranno, se per caso hanno più chance di quelli che vedo di solito in metropolitana, abbarbicati l’uno sull’altra che da lontano sembrano abbracciati, invece a guardar bene una controlla la chat, l’altro gioca a Bubble Bobble, tutti e due fissando guancia a guancia lo schermo del proprio telefono. Li sorpasso e li lascio indietro.

Quello lì è un tizio stravagante, o per lo meno inconfondibile. Più facile incontrarlo la mattina presto, quando si addentra nella foschia dei campi portando a spasso un grosso cane di razza tanto pura quanto indecifrabile, almeno per me. Ma ora è lì, senza cane. Avanza come sempre a grandi falcate. È vestito come sempre con tinte sgargianti – rosso rubino, giallo incandescente, verde irlandese – e porta il kilt, ogni volta uno diverso, su calzini alti color panna dotati di pon pon e un paio di mocassini luccicanti. Entra ed esce dai viottoli fangosi che si inoltrano nei campi lindo e pinto, con un passo deciso e aggraziato quanto l’espressione che ha sempre sulla sua testa albina. A volte porta anche il cappello, però non oggi.

Chissà come corre,
mi domando mentre mi ignora.

Un giorno mi sono imbattuto in una nutria morta. Si vedeva da almeno cinquanta metri che si trattava di un piccolo peloso animale accasciato sull’asfalto, ma solo avvicinandomi ho potuto constatare quanto fosse tenero, degno di pietà quel corpo appallottolato e disteso su un fianco, la boccuccia semiaperta e un rivolo di sangue grumoso che gli fuoriusciva dalla testa. Lì per lì volevo fermarmi. Se non per dargli sepoltura, almeno per levarlo dall’asfalto, adagiarlo nell’erba, lasciare che si decomponesse non visto. “Lo farà sicuramente qualcuno più caritatevole di me”, mi sono detto aggirandolo e aumentando il ritmo della corsa. Subito dopo me ne sono pentito, ho provato una specie di rimorso. Ma non mi sono girato. Mi sono limitato a pensare che se al ritorno il corpicino fosse stato ancora lì, lo avrei deposto altrove. Non mi sbagliavo: al ritorno la nutria era scomparsa. Rimaneva solo una irregolare macchia rossa sulla superficie rugosa dell’asfalto. È incredibile l’affezione che abbiamo sviluppato nei confronti di queste bestiole, che fino a pochi anni fa chiamavamo pantegane. Quando quella in cui scorre il naviglio era ancora un’area spoglia, priva dei tanti parchi che le sono fioriti attorno e della cura che l’ha reso una specie di oasi ecologica, avvistare una pantegana con la sua codaccia viscida era sinonimo di degrado. Un brivido correva lungo la schiena guardando fugacemente il suo corpo irsuto e sinuoso sgusciare nell’acqua in cerca di un approdo. Chissà se mordono, chissà che malattie possono trasmettere. Allora, mi ricordo, ci si informava per capire in che modo fossero arrivati quei toponi malefici nel naviglio. E bisognava risalire all’800, e scoprire che le nutrie furono importate dal Sud America per essere allevate in modo da sfruttarne la pelliccia, che poi veniva venduta come “di castorino”.

Brrrr.

Sempre scandagliando on line, si leggeva con orrore che la nutria è classificata tra le cento specie più infestanti al mondo. Si diffuse un po’ di allarmismo. Addirittura una autorevole e seguitissima gazzetta locale specializzata in crimini commessi da extracomunitari e cronache di pensionati che non mollano mai, a un certo punto dedicò un paio di articoli al “killer del naviglio”. Si trattava – pare, ma nessuno l’ha mai confermato – di una nutria colossale che aveva attaccato e ammazzato a morsi diversi gatti e addirittura un cane nei pressi della stazione della metropolitana di Cassina de’ Pecchi. I proprietari scioccati dalla brutalità delle uccisioni. Onestamente, non seguii quei fatti di cronaca e non ho mai più saputo che fine avesse fatto il killer. Anzi, me ne ero completamente dimenticato.

Ci ripenso solo oggi.

Oggi che abbiamo riscoperto il contatto con la natura, l’amore per un naviglio ridente, rifugio di una fauna guizzante e rigogliosa, tra cui spiccano le nutrie. Le quali, mantenendo fede alla definizione di specie infestante, sono nel frattempo esplose in colonie di decine roditori che prosperano da via Melchiorre Gioia, in centro a Milano, al fiume Adda, linea di confine con la provincia di Bergamo. Famigliole composte da mamma, papà e piccole nutrie sguazzano sicure nel canale, prendono il sole in mezzo alle anatre, segnalandosi per la loro forma tondeggiante e per il pelo perennemente lucido d’un velo d’acqua. Altre famigliole, quelle umane, passano lì accanto, e né le nutrie né le persone provano paura o ribrezzo per le reciproche presenze. I bambini indicano estasiati, i genitori spiegano pazienti. È più bello che allo zoo. Qua gli animali sono liberi, e le nutrie coi loro musotti baffuti visti da vicino sono adorabili mentre sgranocchiano i pezzetti di pane secco che gli gettano i vecchi dalle panchine. Guardo e sorrido della straordinaria mutevolezza del naviglio e dell’universo solo per un istante, poi rimetto gli occhi davanti a me, accolgo nuovamente la fatica e continuo a correre per la mia strada.

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