Il museo dei pesci morti è il libro che avrei voluto scrivere io


Non è facile recensire una raccolta di racconti: viene meno l’unitarietà della trama, mancano gli appigli che dà l’eventuale evoluzione dei personaggi, ed è praticamente impossibile tirar fuori il sugo della storia. Anzi, delle storie. Ma dopo aver letto Il museo dei pesci morti di Charles D’Ambrosio [Roma, Minimum Fax, 2006] ho deciso di rompere il tabù che invece è valso per tante altre raccolte che pure adoro, dalle Cosmicomiche e Gli amori difficili di Calvino a Paura alla Scala di Buzzati, fino ad Acqua dal sole di Bret Easton Ellis. Semplicemente, Il museo dei pesci morti è il libro che vorrei aver scritto io. Del tipo che da una parte ti apre un modo nuovo di concepire vita e racconto di vita, dall’altra ti fa alzare le mani e pensare di smettere di scrivere, tanto quei livelli lì non riuscirai mai nemmeno a sfiorarli.

Kype ripensò a come suo nonno, negli ultimi anni, si era dato a una forma di sordità selettiva, abbassando il volume dell’apparecchio acustico durante la cena per eliminare le alte frequenze, il chiacchiericcio stridulo della figlia ubriaca e la vocetta acuta da adolescente dello stesso Kype, oppure alzando al massimo il volume della tv quando la conversazione lo annoiava. Di fatto, per gran parte della vita di Kype il vecchio era stato acido e cattivo, tranne i primi tempi, in cui, per un senso di pietà verso il nipote orfano, aveva fatto qualche sforzo, impartendogli quella sorta di saggezza popolare e di conoscenza dei boschi che si pensava servisse a irrobustire il carattere: nel 1937 o giù di lì. Quando andavano a campeggiare, l’enorme differenza di età fra lui e il nonno lasciava a Kype una profonda sensazione di incompetenza. E a casa, l’abbondanza di oggetti antiquati – i paralumi opachi e impolverati, le maniglie di ottone annerite dal tempo, il monumentale scrittoio a serranda dove il vecchio teneva i registri contabili rivestiti di pelle, e perfino il tremolio delle matite appuntite dentro la tazza di peltro battuto – lo riempiva di una tristezza infinita, come se il futuro stesso fosse già un relitto leggendario.

Ovviamente tutto è soggettivo, e forse anche influenzato dallo stato d’animo e dalla fase esistenziale che connotano una scoperta letteraria. Fatto sta che questa raccolta, per me, è spettacolo puro, una lettura che dà dipendenza, che si carica di sfumature e nuove significati ogni volta che il prurito di un dubbio ti costringe a tornare sui tuoi passi, su parole di cui pensavi di non esserti accorto, ma che ti si sono appiccicate alle suole delle scarpe come foglie d’autunno.


L’INCONOSCIBILE CHE AFFIORA

Se stai pensando “wow, bella similitudine”, significa che non hai ancora avuto a che fare con l’inventiva di D’Ambrosio. Niente giochi di prestigio, niente fuochi d’artificio: la poesia delle immagini scaturisce dalle immagini stesse, che montano su paradossi a cui ormai la gente – a volte – non fa nemmeno più caso. Quante volte ci capita nel quotidiano di avere a che fare con persone in balia di situazioni che non esitiamo a definire atipiche o addirittura assurde? Ma se facciamo per un attimo mente locale e proviamo a uscire dal familiare sistema di riferimento dell’ego, anche le nostre scelte e le nostre abitudini agli occhi degli osservatori esterni potrebbero sembrare anomalie. O peggio: azioni sbagliate, insensate. È qualcosa che va oltre la capacità di adattamento, oltre l’orizzonte dei desideri e delle motivazioni personali. La natura di ciascun individuo, nel profondo come a volte negli aspetti più superficiali, è semplicemente inconoscibile. E con questa premessa D’Ambrosio ci confida le cronache di individui che in certi momenti fanno fatica a credere a quel che stanno vivendo. Eppure lo vivono, a occhi sbarrati, con gesti incerti, con pensieri che si accartocciano schiacciati dalla realtà.

Caroline, in quanto attrice, aveva un vero talento per l’imitazione, riproduceva avidamente ciò che sentiva attorno a sé, assorbiva la parlata degli altri senza neanche accorgersene, e in passato era successo varie volte che le sue scappatelle arrivassero alla mia attenzione – con un effetto raggelante – prima di tutto sotto forma di una nuova sonorità, una parola nuova nel suo vocabolario, un’inflessione straniera nella voce.


TRA FARGO E CALIFORNICATION

Il realismo – un estremo realismo – è l’altra cifra di ciascuno dei racconti de Il museo dei pesci morti. Certo, aiutano non poco le atmosfere dell’anonima e purtuttavia splendidamente caratterizzata provincia americana, che volenti o nolenti conosciamo tutti anche senza esserci mai stati: ogni storia sembra ambientata in un fotogramma di un film dei fratelli Coen o nel ritornello di una canzone in tono minore dei Red Hot Chili Peppers. Enormi Cadillac dalle sospensioni generose, negozi con le insegne scrostate e penombre polverose dietro le vetrine, edifici affacciati su monotone strade di scorrimento mentre la pioggia scende impietosa sugli ombrelli dei passanti, spiagge ai confini del mondo che fuori stagione sembrano degli immondezzai, chalet festanti di parenti e amici indesiderati le cui finestre sono lumicini nella solitudine, segnali senza alternativa di un riparo dal silenzio di neve e sequoie. Ognuna di queste scenografie non è calata dall’alto, ma sublima dai sensi dei personaggi, e dei lettori, che si immedesimano nel giro di poche righe in altre vite, abitudini, relazioni. E le sperimentano come fossero proprie.

Trovava piacevole quell’atmosfera e quel ritmo familiari, il battere dei tasti racchiuso nel battere più ampio della pioggia. Quasi tutti quelli che entravano nel negozio lasciavano sui fogli almeno una parola: il proprio nome, un balbettio, una citazione. Anche i ragazzi che battevano una fila di lettere senza senso riuscivano a comunicare la propria smania o il proprio dolore tramite un tocco anemico o una martellata rabbiosa. I colpi mesti di un ditino rigido, il pugno violento della frustrazione, le note esitanti e pasticciate che diventavano un torrente quando la macchina reagiva con sensibilità alla mano: tutto questo formava come un’unica riga di testo, una frase senza interruzioni.


L’ULTIMA PAROLA AL LETTORE, COM’È GIUSTO CHE SIA

D’Ambrosio sfiora la varia umanità che compone queste storie con una maestria che – se non s’è capito ancora – mi ha lasciato a bocca aperta. Dalle classi altolocate coi loro feticci ai derelitti che non hanno mai conosciuto i genitori, la scintilla vitale, l’eco dei ricordi che modella infelicità e momenti di riscatto brilla ovunque si posi lo sguardo del lettore, senza mai rivelare intimi segreti, anzi lasciando a lui e ai suoi pensieri, alle sue esperienze, il compito di decodificare e ricostruire interi vissuti. E a volte sono memorabili passaggi che non hanno nulla da insegnare alla trama. Anzi, magari hanno appreso da altre storie. Come questo, che ha il sapore del miglior Conrad:

Era l’atrio buio di quello che un tempo era stato un albergo elegante, dove adesso i vecchi marinai sedevano giorno e notte su poltrone imbottite e divani polverosi e una fila di banchi da chiesa scheggiati. Che non ci fossero più avventure in alto mare ad aspettarli, che gli orizzonti lontani si fossero fatti improvvisamente vicinissimi, sembrava portare i marinai in pensione verso soluzioni estreme: la follia o il silenzio. Presi tutti insieme, non c’era un solo angolo di mondo che quegli uomini non avessero visitato, non un oceano, non un mare, non un fiume che non conoscessero a menadito, ma ora si muovevano raramente da quel salone. C’era un’unica lampada accesa, fioca, dietro un paralume strappato, e un posacenere di vetro verde con dentro una sigaretta fumata a metà, da cui si levava al cielo un filo di fumo con la lentezza di una preghiera.

Prima di chiudere questa recensione, desidero ringraziare Andrea Pennywise, che nel suo blog Un Antidoto contro la solitudine ha intervistato Charles D’Ambrosio in occasione del tour di promozione della raccolta di saggi Perdersi che l’ha portato al Salone del Libro di Torino.

“All’inizio della stesura di un racconto è come se lanciassi in aria delle palle, proprio come un giocoliere, e so di dovermi occupare di tutte quelle palle contemporaneamente e capisco di aver finito davvero quando ho reso giustizia a tutto ciò che ho lanciato in aria. Ha senso?”

E’ stato leggendo la conversazione di Pennywise con D’Ambrosio che mi è venuta la curiosità di assaggiarne la scrittura. Aggiungo che, col senno di poi, anche la sua umiltà è stata una folgorazione. Ho un unico appunto da fargli: nell’intervista D’Ambrosio consiglia Città amara di Leonard Gardner. Ebbene Charles, ti ho dato retta, l’ho comprato e lo sto leggendo, ma non mi piace per nulla!

Io tirai un altro sasso nel lago, lontano lontano, il più possibile.
Restammo tutti in ascolto.
Nell’acqua comparve un cerchio, sempre più ampio.
Poi, tremando dal freddo, Donny incrociò le braccia e strillò:
Ehi, e sentimmo l’eco: Ehi, ehi, ehi, e poi strillai anch’io:
Ehi, e poi perfino il signor Cheetam, e continuammo a sentire l’eco:
Ehi, ehi, ehi, come se ci fossero milioni di noi dappertutto.

 

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