Prendiamo un bel respiro e proviamo a parlare di questo libro affatto semplice da digerire. È lo stesso identico respiro che ha preso Jonathan Safran Foer quando ha iniziato a scriverlo. L’argomento è complesso. Di più, è delicato, perché tocca un bisogno primario. Non solo fisiologico, ma anche culturale, anzi identitario. Il bisogno del cibo, e nella fattispecie il bisogno di cibarsi di animali. Eating animals è infatti lo scarno, americanissimo, titolo originale dell’opera. In Italia Guanda, che pubblica Foer da prima ancora che diventasse un caso letterario negli States, ha scelto il più evocativo Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? [Milano, Guanda, 2009]. “Se niente importa” è la lezione di vita che la nonna di Jonathan, ebrea scampata miracolosamente alla Shoah, impartisce al nipote raccontandogli la disperazione della fame durante la guerra e la forza delle proprie convinzioni.
«Anche nei periodi peggiori c’erano persone buone. Uno mi insegnò come legare il fondo dei pantaloni per imbottirmi le gambe con le patate che riuscivo a rubare. Camminavo per chilometri e chilometri in quel modo, perché non sapevi mai quando avresti avuto di nuovo fortuna. Uno mi diede un po’ di riso, una volta, e io camminai due giorni per andare a un mercato e lo barattai con del sapone, e poi andai a un altro mercato e barattai il sapone con dei fagioli. Dovevi avere fortuna e intuizione.
«Il peggio arrivò verso la fine. Moltissime persone morirono proprio alla fine, e io non sapevo se avrei resistito un altro giorno. Un contadino, un russo, Dio lo benedica, vide in che stato ero, entrò in casa e ne uscì con un pezzo di carne per me.»
«Ti salvò la vita.»
«Non lo mangiai.»
«Non lo mangiasti?»
«Era maiale. Non ero disposta a mangiare maiale.»
«Perché?»
«Che vuol dire perché?»
«Come? Perché non era kosher?»
«Certo.»
«Ma neppure per salvarti la vita?»
«Se niente importa, non c’è niente da salvare.»
Ed è questa nuova consapevolezza, questa responsabilità, che Foer sente viva nel momento in cui gli nasce un figlio. Un figlio a cui dovrà trasmettere la stessa forza e gli stessi valori – cosa è giusto, cosa è sbagliato, cosa importa – che sente propri col sopraggiungere della maturità. Questo travaglio spinge lo scrittore a gettarsi in un progetto lungo tre anni che lo trasformerà in un giornalista d’inchiesta, in un’attivista dei diritti degli animali, in un filosofo a caccia di risposte esistenziali. Verità relative ma consistenti, solide abbastanza da essere consegnate a un figlio.
FAR MALE AGLI ANIMALI
Cominciamo dalla fine. Ovvero col dire che le note del libro occupano da sole 59 delle 348 pagine (indice analitico escluso) dell’edizione italiana. Foer ha documentato tutto, non ha lasciato nulla alle supposizioni proprie, dei suoi interlocutori o del lettore. I fatti raccontati in questo libro sono purtroppo incontrovertibili, e sono fatti che riguardano un’industria scellerata e insostenibile. Non è questione di animalismo, l’oltranzismo di certi movimenti ambientalisti e l’ottusità delle mode New Age non c’entrano nulla: gli allevamenti intensivi e la moderna zootecnia sono una piaga per gli animali, per l’ecosistema e per l’uomo, che letteralmente si ciba di merda, antibiotici e ormoni. No, purtroppo non sono eccezioni da scoop o da documentario, e non si tratta di esagerazioni, visto che sono proprio gli operatori dell’industria e gli agenti sanitari governativi preposti al controllo dei processi a spiegare a Foer di cosa si tratta. E Foer dedica un capitolo a ciascuno dei gironi infernali che ha visto coi suoi occhi.
Nati in provetta, sterili e privi di sistema immunitario, ammassati in enormi capannoni di metallo, calpestati e beccati dai propri simili (ammesso che il becco non sia stato loro amputato da pulcini), costretti a una vita rapida e spietata – giusto il tempo di ingrassare in maniera abnorme ed essere macellati poco prima che il loro stesso peso gli spezzi le zampe – questi sono i polli e tacchini che mangiamo. Chi ha letto La fattoria degli animali di Orwell ricorderà che i maiali sono le bestie più intelligenti tra quelle domestiche. Repressi nei loro rapporti sociali e rinchiusi in spazi che renderebbero folle qualsiasi essere vivente, i maiali, castrati senza anestesia e con le code amputate, sfogano contro i propri compagni di prigionia la loro frustrazione. Va forse un pelo meglio ai bovini, i cui costi di allevamento possono essere compressi fino a un certo punto: marchiatura a fuoco e trasporto disumano ai mattatoi – anche per centinaia di km senza bere e mangiare – a parte, conducono una vita tutto sommato tranquilla. A differenza di quanto si possa immaginare, alla prepotenza di questa catena alimentare stravolta, non sfugge nemmeno il pesce. Quello d’allevamento è costretto a crescere in vasche così sovraffollate che generano – a parte l’insorgenza di fenomeni di cannibalismo – l’aumento esponenziale di parassiti e malattie. Nell’ambiente degli allevatori di salmone tutti hanno dimestichezza con la “corona mortuaria”: i pidocchi in cattività sono circa il 400% più numerosi che in natura e divorano la carne del pesce (vivo) intorno alla testa scavando fino all’osso. E il pescato in mare aperto? Chi adora il sushi (e io sono tra questi) dovrebbe essere consapevole che in media ogni menu contiene solo il 20% degli animali marini tirati su con le reti per riuscire a comporre quelle squisitezze. Il piccolo problema è che il resto dei pesci è inservibile, quindi li si ributta a mare. Purtroppo morti.
FAR MALE ALL’AMBIENTE
Mi vien sempre da ridere quando leggo che d’inverno, a Milano, nelle settimane in cui latita la pioggia, scatta il blocco della circolazione delle auto. Come se fosse quella la causa dell’aria irrespirabile. Le auto contribuiscono solo per il 17-18% all’inquinamento atmosferico e alla propagazione delle polveri sottili. Molto di più pesa il riscaldamento delle case, e se la gioca con le emissioni prodotte da fabbriche e stabilimenti. Penso a cosa succederebbe se il Comune o la Regione annunciassero il blocco dei riscaldamenti o della produzione di beni di consumo: sarebbe rivoluzione in piazza! Non riesco invece nemmeno a immaginare se, con lo stesso scopo, si ridimensionasse l’allevamento, che è il primo responsabile della produzione di anidride carbonica e di liquami dannosi per il suolo. Già, perché pochi ci pensano, ma maiali e vacche scorreggiano e cagano come noi. Anzi, molto più di noi.
Oggi in ambito industriale un allevamento standard di suini produce oltre tremila tonnellate di rifiuti organici all’anno, un’azienda avicola ne produce poco meno di tremila e un recinto da ingrasso per bovini ne produce centocinquantamila. Il General Accounting Office (GAO) riferisce che singoli allevamenti «possono produrre più rifiuti organici della popolazione di alcune città americane». Nel complesso, gli animali allevati negli Stati Uniti producono centotrenta volte i rifiuti organici di tutta la popolazione umana del paese: circa quaranta tonnellate al secondo. La forza inquinante di questa merda è centosessanta volte superiore ai liquami urbani non trattati. Eppure quasi non esistono impianti di trattamento dei rifiuti organici per gli animali d’allevamento: niente gabinetti, ovvio, ma neppure condotte fognarie o qualcuno che porti via i reflui per trattarli, e quasi nessuna regolamentazione federale che disciplini la fine che fanno.
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Quindi quella merda dove va a finire? Mi concentrerò in particolare sul destino della merda del principale produttore americano di carne suina, la Smithfield. La Smithfield da sola uccide ogni anno più maiali della popolazione umana di New York, Los Angeles, Chicago, Houston, Phoenix, Philadelphia, San Antonio, San Diego, Dallas, San José, Detroit, Jacksonville, Indianapolis, San Francisco, Columbus, Austin, Fort Worth e Memphis messe insieme: circa trentun milioni di animali. Secondo le cifre prudenti dell’EPA, ogni maiale produce dalle due alle quattro volte la merda di una persona; nel caso della Smithfield, siamo sui centoventisette chili di merda all’anno per ogni cittadino americano. Il che vuol dire che la Smithfield – una singola persona giuridica – produce almeno tanti rifiuti organici quanto tutta la popolazione umana di California e Texas messa insieme.
FAR MALE ALL’UOMO
È scontato dire che tutto ciò ha enormi ripercussioni sulla qualità della vita dell’essere umano sul piano materiale. Ma pochi intuiscono quali aberrazioni quest’industria produce anche nell’animo di chi è costretto a lavorare con la distruzione sistematica e incessante di esseri viventi.
Come in qualunque tipo d’industria, l’uniformità è essenziale. I maialini che non crescono abbastanza in fretta – i cosiddetti «scarti» – rappresentano uno spreco di risorse e non hanno posto nella fattoria. Presi per le zampe posteriori, a migliaia vengono fatti dondolare e sbattuti per la testa sul pavimento di cemento. Quest’abitudine è chiamata «battuta». «Ne abbiamo battuti centoventi in un giorno» ha affermato un addetto di un allevamento del Missouri. Li facciamo dondolare, li battiamo e poi li buttiamo da una parte. Dopo averne battuti dieci, dodici, quattordici, li porti nel deposito rifiuti e li accatasti per il camion. E se vai nel deposito rifiuti e qualcuno è ancora vivo, lo devi battere daccapo. Certe volte entravo nel deposito e ce n’era qualcuno che correva in giro con un occhio che gli penzolava di lato, sanguinando come un pazzo, o con la mascella rotta. «La chiamano ’eutanasia’» ha detto la moglie di quell’uomo.
Ho scelto questo passo perché descrive un’attività “normale” all’interno di un allevamento intensivo. Ma ce ne sono molti altri, ancora più agghiaccianti, che raccontano le pratiche di alcuni aguzzini che torturano gli animali per puro sadismo. Ci sono decine di indagini, arresti e condanne per questo genere di reati. Ma passano il più delle volte sotto silenzio per non danneggiare l’immagine confortante e genuina dei prodotti alimentari di origine animale. E perché, diciamocelo, il pubblico non vuole saperne. Il pubblico ha paura di guardarsi allo specchio e scegliere. È questa l’intuizione più sottile e potente che Foer riesce a trasmettere attraverso il suo colossale lavoro: il cibo è molto più che nutrizione, e molto più che soddisfazione di un bisogno o di un piacere. Il cibo rappresenta e cementifica la nostra storia, la nostra identità, la nostra vita. Non mangiare carne – o ridurne drasticamente il consumo – significa rinunciare a un pezzo di noi, e alla convinzione radicata che il nostro agire è fondamentalmente giusto. Ribaltare questo prospettiva non è semplice, rendersi conto che da consumatori si è direttamente responsabili di tante storture è dura da accettare. Ancora più dura che rinunciare al buon sapore e all’apporto nutrizionale della carne.