È triste il racconto che Kilo fa dell’esperienza nelle carceri siriane pur non descrivendo in modo esplicito la tortura fisica. In una struggente intervista video racconta di quando in carcere, nel corso della notte una guardia lo prelevò per portarlo in un’altra cella: «Mi indicò un angolo vuoto e disse, siediti e racconta una storia a questo bambino. In quel luogo stretto, c’era una donna che poteva avere circa trent’anni (…) era seduta tutta piegata, terrorizzata, come se stesse cercando di proteggersi da un pericolo imminente. Dissi rassicurante, non abbiate paura sorella, io sono un prigioniero, come voi. Dopo un breve silenzio, chiesi da quanto tempo si trovasse lì. Sei anni, rispose lei. Guardai il bambino, che aveva quattro anni, e capii che era stato concepito e partorito in carcere. Le chiesi perché fosse in quel ramo di sicurezza della prigione. Ella rispose, con gli occhi pieni di lacrime, sono un ostaggio. Mi sedetti davanti al figlio e chiesi il suo nome. Non rispose. Sua madre mi disse che non aveva ancora un nome vero, perché non era mai stato registrato, ma lei lo chiamava Anis. Ti racconterò una storia, Anis. C’era una volta un uccello, un uccello colorato che era veramente bravo a cantare. Anis mi interruppe e mi chiese: che cosa è un uccello? Rimasi in silenzio per un po’ e poi decisi di cambiare storia. Iniziai, il sole sorgeva sopra la montagna, ma le sue espressioni facciali indicavano sorpresa e incomprensione. Sua madre mi disse: Anis non è mai uscito fuori da questa cella, quindi non capisce di cosa stai parlando, poi scoppiò a piangere. Ero perplesso, non sapevo che cosa fare, se dovevo raccontare una storia a questo bambino, una impresa impossibile, oppure se dovevo consolare la madre la cui dignità era stata violata e gli anni migliori della sua vita erano stati sprecati in quel luogo soffocante, insieme a un bambino (…)».
Alberto Savioli