Se morisse l’Inghilterra


Un paese che vuol sopravvivere, e il sopravvivere pone come causa e come scopo della sua azione nella storia, ha, come del resto qualunque individuo che ponga la fisiologia alla base della propria esistenza, l’oscuro sentimento che dopo la sua morte non resterà più nulla di lui. E tale appare in realtà, per sventura sua e degli altri, la sorte dell’Inghilterra, se la si considera nella sua concretezza, e non ci si lascia ingannare dalla magnitudine del suo corpo. Muore la Grecia, e vive immortale nei secoli l’anima ellenica; muore Roma, e rivive eterna nella romanità; muore la Germania, e lascia dietro di sé il germanesimo, che non può perire; muoiono l’Italia e la Francia, ma non la latinità che costituisce, in diversa e talora opposta forma, la loro essenza immortale. Se morisse l’Inghilterra, nessuna «anglicità» lascerebbe in retaggio: essa scomparirebbe interamente, e non potrebbe mai alcun «ferum victorem capere».

Una nazione o uno Stato che non racchiude in sé alcuna idea universale non è in sostanza altro che una grossa società anonima, con milioni di azionisti, o forse anche con pochi, se si tien conto della inuguale distribuzione delle ricchezze. Le sue imprese potranno essere colossali, e in qualche momento simulare anche la grandezza: il principio statuario che le regge sarà sempre l’interesse della società, e questo sarà l’unica voce che essa potrà portare nel perpetuo rivolgimento umano, cioè nella storia. Perciò l’azione dell’Inghilterra nel concerto dei popoli non appare mai positiva, ma negativa: la ricerca di un equilibrio, che si risolve ora nel sacrificio dell’uno, ora nel sacrificio dell’altro, all’unico fine e con l’unico risultato di mantenere in piedi la sua pericolante amministrazione, e prorogare il termine di scadenza della società.


Salvatore Satta

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