Lo scaricabarile (non) si ferma qui


È pratica comune concentrarsi sui leader nel tentativo di leggere i fatti del pianeta. È esercizio diffuso studiarne profilo, prossemica, retorica, aspirazioni politiche e tendenze sessuali per cogliere dove condurranno una specifica collettività. Peccato che questi siano pressoché ininfluenti.

Certo, sono riduttori di complessità, “totem” intorno ai quali si coagula la popolazione, strumenti per rendere in dialettica le manovre da compiere. Ma la loro esistenza quasi mai incide sulla traiettoria delle nazioni. Sono espressione del milieu culturale, non ne sono artefici, cavalcano i sentimenti popolari, non li inventano, seguono il percorso fissato dalla popolazione, non lo determinano. Credere il contrario è un drammatico abbaglio.

I capi si rivelano capaci quando intercettano le sotterranee pulsioni di una comunità, diventandone alfieri, quando comprendono le tendenze della congiuntura internazionale, impegnandosi a sfruttarle o schivarle. Se pensano di decidere la propria epoca finiscono umiliati dalla storia, se credono di imporsi sugli eventi si scoprono travolti. Più della loro biografia, conta la burocrazia statale, classe inossidabile che gestisce la cosa pubblica, incaricata di elaborare politiche domestiche ed estere, indifferente alle oscillazioni elettorali. Ancora di più, conta l’attitudine dei cittadini più umili, coloro che sopportano le sofferenze per i rovesci subiti dalla nazione, che custodiscono il senso di colpa per le ingiustizie commesse su vicini e nemici, che forniscono la demografia indispensabile al compimento di grandi imprese. Assunto spesso assente nella storiografia convenzionale, di impianto leaderista, restia a concentrarsi sulle comunità, sulle forze che producono gli avvenimenti, segnata con gusto teatrale dalle impossibili gesta di re e condottieri. I leader rivestono molteplici funzioni. Incarnano (temporaneamente) l’espressione statale, semplificano la quotidianità composta di innumerevoli processi strutturali. Si presentano all’opinione pubblica come terminale di ogni vicenda, nel bene e nel male. The buck stops here (lo scaricabarile si ferma qui), aveva scritto sulla scrivania il presidente americano Harry Truman, arrogandosi l’ultima parola.

Forniscono alle comunità un condottiero palpabile, da opporre alle forze oscure che danno forma all’esistenza. La popolazione assegna loro il merito per i successi collettivi, la colpa di fallimenti altrettanto generali, riconosce la loro (impossibile) influenza su fenomeni aggregati, collocati oltre la disponibilità di un singolo individuo. Così convincendo i leader ad attribuirsi, per narcisismo o responsabilità, eventi estranei alle loro scelte. Come l’andamento economico, determinato da condizioni strutturali generate nei decenni, dalla collocazione geografica o dal semplice ciclo capitalistico. Come le vittorie militari, prodotte dallo sforzo della popolazione, dal suo sostegno alla causa, dall’inclinazione degli ultimi a morire per l’interesse nazionale (o imperiale).

I capi traducono in retorica scelte obbligate, inventano motivazioni accessorie per stimolare il ventre della cittadinanza, si ergono a esempio da seguire. Assai difficile incitare i giovani a crepare per conquistare uno specifico teatro strategico o per colpire l’influenza dei vicini. Più efficace esortarli a combattere per compiere la volontà di Dio, per sconfiggere il male, per conservare la democrazia. Re e presidenti nutrono l’illusione che la realtà sia soggetta alle decisioni degli umani, soddisfano l’ancestrale necessità di spiegare posticciamente il creato, di credere nel nostro dominio sulla natura. Così da intestare quanto capita all’operato di un individuo, rifuggendo, almeno temporaneamente, la consapevolezza che i fatti non si piegano ai nostri desideri.

Qualità o incompetenza dei capi non influisce sulla storia. Anziché essere artefici del destino, questi sono derivazione della cifra collettiva, conseguenza dell’era in cui vivono. In barba alla cerimonia di sé, realizzano quanto può il popolo che presiedono. Niente di più, niente di meno.


Dario Fabbri

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