«Stavamo scivolando in una depressione mortale» mi disse il dottor Perna. «Negli ultimi tempi stavamo assistendo alla scomparsa della città.» Erano così tanti i minatori a essersene andati, che gli ultimi cittadini di Leadville non potevano neanche riempire le tribune di un piccolo stadio amatoriale di baseball.
La sola speranza per risollevare la città era il turismo, il che era come dire che non c’era nessuna speranza. Quale idiota sarebbe andato in vacanza in un posto che per nove mesi l’anno era gelido (ma senza le piste da sci) e in cui l’aria era così rarefatta che il semplice fatto di respirare poteva essere considerato un esercizio di cardiofitness? I dintorni di Leadville erano talmente aspri che il corpo scelto della Decima divisione di montagna dell’esercito veniva qui per addestrarsi nel combattimento alpino.
A rendere le cose ancor più drammatiche, c’era il fatto che la reputazione di Leadville era altrettanto spaventosa della sua geografia. Per decenni era stata la città più selvaggia del West, «una trappola mortale in ogni senso» per dirla con una cronaca dell’epoca «che sembrava andare fiera della propria depravazione». Il dottor Holliday, un dentista convertitosi al gioco d’azzardo e alla pistola, era solito frequentare i saloon di Leadville con il suo amico Wyatt Earp, suo compagno nella sparatoria dell’O.K. Corral. Anche Jesse James era solito aggirarsi da queste parti, attratto dalle diligenze cariche d’oro e dagli eccellenti nascondigli offerti dalle montagne dei paraggi. Ancora negli anni Quaranta del Novecento le truppe della Decima divisione di montagna non erano autorizzate a mettere piede a Leadville: sebbene fossero abbastanza spietate per combattere i nazisti, non lo erano per tenere testa ai tagliagole e alle prostitute che dettavano legge su State Street.
Certo: Leadville era un posto difficile, e Ken lo sapeva bene. Pieno di uomini tosti e di donne anche più toste di loro. E poi…
Merda! Porca merda! Ecco la soluzione!
Se a Leadville non restava da vendere nient’altro che grinta, allora fatevi avanti signori: a Leadville serviamo grinta fresca di prima qualità. Ken aveva sentito parlare di un tizio, un montanaro californiano coi capelli lunghi di nome Gordy Ainsleigh, la cui giumenta si era azzoppata poco prima della Western States Trail Ride, la più importante corsa di resistenza a cavallo. Gordy però decise di partecipare comunque alla gara. Si presentò alla partenza indossando scarpe da corsa e si mise a correre sulla Sierra Nevada per 160 chilometri. Bevendo dai ruscelli e facendosi dare un’occhiata dai veterinari alle postazioni mediche, alla fine riuscì a restare di diciassette minuti sotto il limite delle ventiquattro ore. Ovviamente Gordy non era l’unico pazzo della California, e fu così che l’anno seguente un altro corridore partecipò a piedi alla gara equestre… e un altro l’anno dopo… fino a che, nel 1977, i cavalli furono estromessi e la Western States divenne la prima gara podistica al mondo di 160 chilometri.
Ken non aveva mai corso una maratona, ma se qualche hippy californiano era in grado di correre per 160 chilometri, di certo non poteva essere troppo difficile. Inoltre una normale gara non avrebbe risolto nulla; se in ballo c’era la sopravvivenza stessa di Leadville, allora ci voleva un evento con i controcazzi, qualcosa che si distinguesse da quelle gare tutte identiche tra loro, quelle corsette da 42 chilometri che vista una viste tutte.
Fu così che, anziché organizzare una maratona,
Ken creò un mostro.
Per farvi un’idea di ciò che propose, immaginate di correre per due volte di fila la maratona di New York con un calzino infilato in bocca e con un dislivello pari al monte Pikes Peak.
Fatto?
Perfetto. Adesso fatelo di nuovo, stavolta a occhi chiusi. In fin dei conti, correre la Leadville Trail 100 equivale più o meno a fare queste cose: quasi quattro maratone, metà delle quali al buio, con due dislivelli di 800 metri in mezzo. La linea di partenza è a un’altitudine doppia rispetto a quella a cui gli aerei pressurizzano le cabine, e quello è il punto più basso del percorso.
«L’ospedale fa un sacco di soldi grazie a noi» dichiara soddisfatto Ken Chlouber, venticinque anni dopo l’inaugurazione della gara e il suo alterco con il dottor Woodward. «È l’unico weekend dell’anno in cui le camere d’albergo e i letti d’ospedale sono tutti pieni.»
Ken sa di cosa parla: ha partecipato a ogni corsa di Leadville, nonostante la prima volta avessero dovuto ricoverarlo in stato di ipotermia. Per i corridori di Leadville è normale cadere da notevoli altezze, rompersi le caviglie, prendersi delle insolazioni, soffrire di bizzarre aritmie cardiache e di disturbi dovuti all’altitudine.
Incrociando le dita, la corsa non ha ancora fatto fuori nessuno, probabilmente perché demolisce la maggior parte dei corridori prima che questi collassino. Dean Karnazes, autonominatosi «l’Uomo dell’Ultramaratona», nei suoi due primi tentativi abbandonò la gara prima di arrivare al traguardo; dopo averlo visto ritirarsi per due volte di seguito, la gente di Leadville cominciò a chiamarlo «Ofer».
Ogni anno meno della metà dei partecipanti
riesce ad arrivare al traguardo.
Non è affatto sorprendente scoprire che un evento in cui il numero dei ritirati supera quello di coloro che riescono a concludere la gara tende ad attirare una razza di atleti piuttosto bizzarra. Per cinque anni il campione incontrastato della corsa di Leadville è stato Steve Peterson, membro di una setta – la Divina Follia – che crede nell’esistenza di una coscienza superiore e che cerca di raggiungere il nirvana attraverso orge, corse in condizioni estreme e un servizio di pulizie domestiche a prezzi ragionevoli. Un’altra delle leggende di Leadville è Marshall Ulrich, un affabile magnate del cibo per cani che è riuscito a migliorare i suoi tempi facendosi asportare chirurgicamente le unghie dei piedi. «Tanto continuavano a cadermi in ogni caso» ha spiegato.
Quando Ken conobbe Aron Ralston (un alpinista che si era amputato da solo una mano con la lametta di un coltellino svizzero dopo che gli era rimasta incastrata sotto un masso) decise di fare a questo ospite speciale un’offerta sbalorditiva: gli permise di partecipare alla gara di Leadville senza pagare. Quest’offerta lasciò a bocca aperta tutti gli astanti. Anche il campione in carica deve pagare l’iscrizione per poter difendere il titolo. Perfino l’eroico gran maestro Ed Williams deve pagare. Lo stesso Ken paga la sua quota. Aron invece può partecipare gratuitamente: perché?
«Perché lui è l’essenza di Leadville» disse Ken. «Abbiamo un motto qui: sei più duro di quanto credi e puoi fare più di quanto pensi. Un tipo come Aron ci mostra cosa siamo in grado di fare, quando si decide di andare fino in fondo.»
Christopher McDougall
Il tuo commento mi ha fatto ridere. Non ci si conosce ma parli con chi lavora nella ristorazione. Il post era ironico, a Firenze abbiamo uno dei migliori sushi (ristorante intendo) del Paese, fra i tanti che vi sono. Per farti un altro esempio, a Rimini c’è un altro dei migliori ristoranti di sushi con team italiano e giapponese. Hai scritto delle ovvietà nel commento. Lo faccio leggere allo chef, mo si ride. È palese che orientale è generico… 😅😅😅
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Sono cuoco di partita, bartender caposquadra e giovane food and beverage manager. Se vuoi parlare di culture culinarie, non hai che da chiedere.
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ti ringrazio, ma quando si tratta di cultura gastronomica preferisco assaggiare (in Cina e in Giappone direttamente, non a Firenze e a Rimini)
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Parli con un girellone Domenico, sfondi porte aperte ma parli con un esperto in materia. Tutto qua. Ci studio e ci lavoro in questi ambienti.
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Il sushi a Palermo è sublime, più di quello originale per intendersi. Stessi esperti giapponesi lo sostengono.
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come mai mi scrivi qui e non sotto il tuo post? almeno il commento me lo potresti approvare..
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Commento banale. Mi fai venire in mente certi clienti che fanno i tuttologi ed esperti di enogastronomia e poi prendono le mazzate dai reali esperti. Una volta beccai uno che faceva l’esperto di vini e brandy (distillato di vino), non appena gli ho mostrato dei prezzi, si è cagato sotto. Un classico 😅😅
È stato un piacere. Ade
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ah ok. grazie per avermi risparmiato la figuraccia.
buon all-you-can-eat!
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Generalmente vado nei ristoranti seri ma un all you can eat con gli amici non guasta mai. Se hai bisogno di consigli, chiedi pure.
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Per tua informazione: la cucina cinese, giapponese, thailandese, coreana, vietnamita e poi indiana/cingalese le ho assaggiate direttamente da persone autoctone. Nessuno scarto e nessun piatto “taroccato” come si dice. Poi ti posso parlare di cucina araba, africana e creola-latina. 😅😅☺
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caspita!
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😄😄🤗😉
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