Lettera a Niraz Saied


“Il mondo è un mucchio di gente, un mare di fiammelle. Ogni persona brilla con la propria luce. Non ci sono due fiamme uguali. Ci sono grandi fiamme e piccole fiamme, fiamme d’ogni colore. Le fiamme di alcune persone sono così immobili che non oscillano neanche al vento, mentre altre hanno fiamme selvagge che riempiono l’aria di scintille. Alcune fiamme sciocche non bruciano né gettano luce, ma altre ardono di vita con tale intensità che non riesci a guardarle senza battere le palpebre, e se ti avvicini brilli nel fuoco.”

Eduardo Galeano, Il libro degli abbracci


Ti ho mai detto, caro Niraz, che sei una di quelle fiamme che ardono di vita con tale intensità che sopraffanno chiunque vi si avvicini con calore e scintille? Ho dato la tua presenza per scontata, forse, e ho dimenticato di dirti quanto fortunata e immensamente privilegiata sono stata ad avvicinarmi al tuo fueguito – la tua fiammella – ad ascoltarti, a chiamarti mio amico e mio compañero.
In quanto fotografo vincitore di premi che viveva a Yarmouk, sei diventato famoso per quel catturare col tuo obiettivo la vita quotidiana nel campo per rifugiati assediato, le storie delle persone, la loro lotta per la sopravvivenza, le loro paure, i loro sogni, e i piccoli dettagli che spesso passano inosservati. La tua foto dal titolo “I Tre Re” ha vinto il primo premio a un concorso di fotografia organizzato dall’UNRWA, e hai co-diretto un film sul campo di Yarmouk. Dovevo intervistarti riguardo al film, alla vita all’interno del campo, e a com’è essere un “fotografo di guerra” non bianco che vive sotto assedio. Ma quella che è iniziata come un’intervista via Skype in quel dolce pomeriggio di novembre, si è trasformata in una conversazione sulla Palestina, sulla Siria, la sinistra, il tuo accento, i nostri amici in comune e le nostre frustrazioni condivise.
Nel 1948 i tuoi nonni vennero sfollati dal villaggio palestinese di Awlam, vicino a Tiberiade, in seguito alla pulizia etnica. Oggi Awlam è del tutto distrutto, ma la sua bellissima sorgente c’è ancora, e tu ne parli come se ci fossi stato e ne avessi assaggiata l’acqua. Mia nonna faceva pascolare le pecore vicino a Awlam negli anni ’50, e anche lei conosce quella sorgente. Assapora i suoi ricordi del luogo. I sionisti ti hanno negato il diritto di formarti il tuo ricordo fisico di Awlam, ma non hanno potuto strapparti la connessione e l’appartenenza che hai verso quel villaggio.
Più parlavamo, più la tua energia, passione e gentilezza si facevano sbalorditive. Aggiungerei anche che il tuo coraggio era straordinario, ma rifiuteresti di definirti coraggioso. Accennavi al tuo amore per Víctor Jara, Eduardo Galeano e Ghassan Kanafani. E quando parlavi di Yarmouk, facevi sentire a chi di noi non era mai stato nel campo che anche noi ne conoscevamo ogni angolo e che anche noi giocavamo a calcio per le sue strade. “Il campo è l’essenza della storia palestinese”, proclamavi, anche mentre percepivi che il campo che conoscevi così bene non sarebbe più stato lo stesso.
“Yarmouk per come lo conosciamo è perso per sempre”, dicesti nel novembre del 2014. “Sta andando verso la decimazione totale, oppure diventerà un emirato islamico”.
Tu cercavi di restare positivo, ma stava diventando sempre più difficile non incupirsi.
E noi, palestinesi all’interno della Palestina, abbiamo deluso Yarmouk e la sua gente. Non abbiamo parlato contro l’assedio e i bombardamenti a voce abbastanza alta e in modo abbastanza risoluto. Non abbiamo trattato in modo autentico la piaga dei campi palestinesi in Siria come parte inscindibile della causa palestinese. Non abbiamo sostenuto la gente di Yarmouk nel modo in cui quelle persone hanno sostenuto noi nel corso di ogni singolo attacco e ogni singola incursione israeliani. E molti di noi hanno iniziato a interessarsene quando i combattenti dello Stato Islamico hanno preso d’assalto il campo, e quand’era troppo tardi per prendersi a cuore la cosa.
Tu sei stato tra coloro costretti a lasciare il campo quando lo Stato Islamico ne ha occupato larga parte nell’aprile del 2015. “Sono sicura che la vita alla fine ti renderà giustizia, che avrai finalmente l’opportunità di ricongiungerti a Lamis, la tua fidanzata”, ti assicuravo io. Tu hai sorriso. Il tuo sorriso una fiammella che arde di vita illuminando l’universo.
Ma cambia poi qualcosa se ora dico questo? Le mie parole attraverseranno i confini e il filo spinato, i checkpoint e le torrette dei cecchini, i muri e le guardie, raggiungendo in qualche modo la tua cella? C’è spazio sui muri della tua cella di prigione senza finestre per uno scarabocchio in più e per un’ultima, disperata supplica?

Riesci a sentirci?
Tra le grida dei detenuti torturati
e gli strilli degli internati
che muoiono di fame, riesci a sentirci?
Tra le urla delle guardie e le imprecazioni
degli interrogatori, riesci a sentirci?

 

Riesci a sentire il tremore nei cuori di coloro che ti vogliono bene e il loro battito del cuore collettivo? Ci sono innumerevoli cuori, Niraz, martellanti, palpitanti e tremanti davanti all’eventualità di ricevere appena un’altra briciola di informazioni su di te. Ci sono innumerevoli braccia allungate, carissimo Niraz, che aspettano di avvolgerti, di tenerti stretto, di farti essere forte, di assicurarsi che tu non ti senta mai solo, dimenticato o abbandonato.

Riesci a sentirci?

 

E se tutte le voci annegassero e tutte le parole evaporassero, riusciresti ancora a distinguere la voce di Lamis. Lei conta sulla forza e sulla ferocia del suo amore per proteggerti. Non ha le ali di un angelo per trasportarti fino alla libertà, ma non ha mai smesso di credere – o almeno rifiuta di smettere di credere – nella tua salvezza. Ti scrive ogni giorno e appena sarai rilasciato ti leggerà le sue lettere ad alta voce, e a te magari suoneranno familiari. Lamis rifiuta di pronunciare la parola “se” quando fa cenno al tuo rilascio. Per lei, si tratta sempre e solo di “quando”.
Quando Niraz uscirà, faremo questo e quello”, dice sempre.
Ma dei dubbi potrebbero prendere piede.
Il 2 ottobre 2015, oltre due anni fa, le forze di sicurezza siriane ti hanno portato via senza mandato né alcuna spiegazione. Sei sopravvissuto ad anni di assedio e bombardamenti mentre eri a Yarmouk, ma sei stato portato via da un luogo che pensavi fosse più sicuro.
Nei primi mesi della tua detenzione, non passava giorno senza rassicurazioni. Il tuo rilascio sarebbe stato una questione di giorni o al massimo di settimane, si sentiva dire più volte Lamis, ma non ci sarebbe voluto molto tempo. Oltre due anni dopo, non sappiamo se tu sia vivo o morto. Morto? L’ho contemplata, questa parola?
La speranza è un atto rivoluzionario, dicono alcuni. La disperazione è tradimento, anche. Mi rifiuto di perdere la speranza, e lo stesso vale per Lamis, ma la tua prolungata assenza sta tirando la corda della nostra capacità di perseverare davvero fino al limite. Fai parte anche tu ora delle file degli scomparsi della Siria: le decine di migliaia di donne e uomini nascosti da qualche parte dalle forze di sicurezza siriane senza lasciare traccia. Scrivere “decine di migliaia di scomparsi” è già abbastanza duro. Pensare ai volti dietro a questo numero, il terrificante destino che li attende, l’angoscia, l’impotenza e l’alienazione a cui le loro famiglie e i loro cari sono condannati, è ancora più soffocante.
Caro Niraz,
prima di lasciare Yarmouk, hai detto più volte che se avessi potuto scegliere tra morire sotto ai bombardamenti o morire sotto tortura in prigione, avresti scelto la prima delle due morti. Non potrei offrire una risposta appropriata se non quella di pensare che le persone in Siria meritano una molteplicità di scelte più umana. Meritano di pensare a dove e a come vogliano vivere, non con quali mezzi preferiscano morire. E sono questa disumanità di scelte e gli standard di brutalità asfissianti ai quali i siriani sono soggetti che mi fanno inconsciamente sperare in una punizione più “convenzionale”. La crudeltà della sparizione forzata mi farebbe sperare che i siriani venissero messi a processo. Non dev’essere per forza un processo giusto e le condizioni in carcere possono essere tremende, ma se solo potessimo avere accesso a dove si trovano, sapere dove vengono trattenuti, ed essere in grado di protestare contro il loro arresto fosse anche una protesta vana.
Inconsciamente, e con un enorme senso di colpa, sto ora trattando l’incarcerazione come una relativa benedizione se messa a confronto con la sparizione forzata.

Vedi quanto siamo stati stravolti, Niraz?

 

L’incarcerazione è disumana, la detenzione è disumana, la tortura fisica è disumana, la tortura psicologica è disumana, e non esiste alcuna incarcerazione “regolare”. Non dovremmo mai permettere agli oppressori di metterci nella condizione di preferire una forma di crudeltà e repressione rispetto a un’altra.
Ma se solo ci dessi un segno, Niraz… Dacci un segno che sei ancora vivo, che riesci a sentirci, che sei in grado di sentire quanto noi aneliamo a te.
Faremo i conti col fardello dell’attesa. Resisteremo alla tentazione di normalizzare la punizione e la repressione “convenzionali”. Continueremo a scavare buchi nei muri del silenzio e della noncuranza finché crolleranno, ma dacci un segno per farci esorcizzare i nostri dubbi.
Ti devo una tazza di caffè sui gradini della Porta di Damasco e una lunga passeggiata per la Città Vecchia di Gerusalemme, ricordi? Non mi stancherò mai di aspettare il giorno in cui potrò mantenere questa promessa. Rimani attaccato alla promessa che tu hai fatto a noi e aggrappati alla vita, perché ci saranno giorni più belli e più giusti. Per te, per Lamis, e per tutti noi.

Budour Hassan (traduzione dall’inglese di Claudia Avolio)


7 pensieri su “Lettera a Niraz Saied

  1. “Le perosone in Siria meritano una molteplicità di scelte più umane. Meritano di pensare a dove e a come vogliono vivere, non con quali mezzi preferiscano morire. E sono questa disumanità di scelte e gli standard di brutalità asfissianti ai quali i siriani sono soggetti che mi fanno inconsciamente sperare in una punizione più convenzionale”.

    Fanno così male queste parole 😢… ma in fondo tutto il testo è disperato, pur cercando spiragli di speranza. È l’impotenza che fa male.

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    1. quel che ha colpito me è il fatto che in mezzo a miliardi di fiammelle – che al di là della bella immagine sono una generalizzazione come un’altra, una catalogazione, un mettersi a contare e basta senza scendere nei vissuti – ci sono drammi e sentimenti personali che visti dalla prospettiva dell’io distorcono il mondo intero.
      penso a cosa sarebbe il mondo per me se fossi Niraz o la sua fidanzata Lamis.
      e allora niente più è come prima.
      non me lo devo dimenticare mai.

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