La nostalgia delle belle notizie


Il 26 dicembre 1991 l’Unione Sovietica fu ufficialmente sciolta.

Però a scuola le vecchie carte geografiche restarono al loro posto. Ogni tanto l’insegnante ne tirava giù una e indicava le nuove nazioni, che non erano contrassegnate da confini. Anno dopo anno ci confrontavamo con il confine fittizio di quella gigantesca superpotenza che non esisteva più, e con le frontiere invisibili ma più che reali dei nuovi paesi. Ricordo che ero affascinata dalla vastità e dalla vicinanza geografica. L’Unione Sovietica, un nome che sa già di passato, alla stregua di «Jugoslavia» e «Seconda guerra mondiale», era stata il nostro vicino più prossimo.

Il mio primo incontro con l’ex Unione Sovietica avvenne in compagnia di un nutrito gruppo di pensionati finlandesi. Frequentavo l’ultimo anno di liceo a Helsinki, e avevo trovato un biglietto a prezzo scontato per una gita in pullman a San Pietroburgo. Già il controllo alla frontiera mostrò la serietà della faccenda: per ben cinque volte militari armati salirono a bordo per controllare tutti i passaporti e i visti. Quando ci fermammo per pranzo a Vyborg, alcuni pensionati scoppiarono a piangere.

«Una volta era una città bellissima» commentò una signora.

Nel periodo fra le due guerre Vyborg era la seconda città più grande della Finlandia, ma dopo il secondo conflitto i finlandesi dovettero cedere quella parte della Carelia all’Unione Sovietica. La fatiscenza regnava ovunque. La pittura si staccava a grosse falde dalle facciate, i marciapiedi erano pieni di buche, la gente aveva un’aria scontrosa e seria, e indossava indumenti scuri e tristi.

A San Pietroburgo fummo sistemati in un casermone di cemento. Con le sue ampie strade, i filobus malandati, i palazzi classici in colori pastello e i bigliettai maleducati, la città era allo stesso tempo molto commovente e ostile; era orribile e bella, repulsiva e allettante. Pensai che non ci avrei più messo piede, ma non appena tornata a casa a Helsinki andai a comprare dei manuali di russo. Negli anni seguenti imparai a memoria sostantivi e declinazioni, mi cimentai con gli aspetti perfettivi e imperfettivi e mi esercitai davanti allo specchio con le consonanti sorde e sonore. Feci altri viaggi, a San Pietroburgo e a Mosca, ma anche nelle periferie della vecchia Unione Sovietica, nel Caucaso settentrionale, in Ucraina e in Moldavia, e nelle repubbliche non riconosciute come stati sovrani dell’Abcasia e della Transnistria. Ovunque, dalle montagne dell’Ossezia alle palme della penisola di Crimea, dalla sonnolenta Chishinev agli ingorghi di Mosca, c’erano tracce dell’Unione Sovietica. Aveva lasciato il segno sugli edifici e sulle persone, tanto che le località si somigliavano tutte, non importava quante centinaia di chilometri distassero le une dalle altre.

Anche se l’opinione su Putin e sulla Russia contemporanea oscillava tra la profonda ammirazione, il senso d’impotenza e il disgusto, dappertutto trovavo la medesima nostalgia dell’Unione Sovietica. Praticamente chiunque avesse l’età per ricordarsi l’epoca dei soviet ne aveva nostalgia. In un primo momento questo fatto mi stupì, perché a scuola avevamo soltanto appreso dei campi di lavoro e delle deportazioni, del controllo, del sistema economico disastroso e delle catastrofi ambientali. Nessuno ci aveva parlato di biglietti aerei a prezzi bassissimi, quasi regalati, di soggiorni termali sulla costa sovvenzionati per gli operai stanchi, di asili nido e istruzione gratuita per tutti, per non parlare di tutte le belle notizie. Fino a quando prese il potere Gorbačev, i giornali e i notiziari erano pieni zeppi di belle notizie e di storie a lieto fine. Secondo i media di Stato, nell’Unione Sovietica tutto andava a meraviglia, la criminalità non esisteva, non accadeva mai un incidente, e per ogni anno che passava i trionfi diventavano sempre più grandi.


Erika Fatland

3 pensieri su “La nostalgia delle belle notizie

    1. ciao Pina, grazie! ultimamente ho fatto molta fatica a leggere, soprattutto fiction: la realtà la sta surclassando, in peggio, e mi sento quasi a disagio..

      anche a me la Fatland sta piacendo un sacco. è essenziale e discreta, e sa far parlare i suoi interlocutori descrivendo cose spesso inconcepibili per l’orecchio occidentale con estrema naturalezza

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