Sono io, sono me


Non è difficile indovinare perché è stato chiesto a me, che non sono un uomo di lettere, di scrivere la prefazione a questo romanzo di Oriana Fallaci.

Sono il primo produttore cinematografico ad avere la possibilità, e la responsabilità, di trarre un film da Un uomo. Per chi ama fortemente un’opera letteraria questa non è sempre una buona notizia. C’è un naturale scetticismo e bisogna riconoscere che quanto più un libro è grande (e questo lo è davvero), tanto più è difficile realizzare un film che ne sia all’altezza. Deve averlo pensato con forza Oriana Fallaci, per aver negato con fermezza, a tutti, la possibilità di provarci. Di più, ha creato una mitologia, il libro inespugnabile, il film impossibile.

Negli ultimi quindici anni ho parlato tante volte di questo progetto con Laura Paolucci, la persona con cui nel cinema condivido le scelte, e sempre facendo un puro esercizio di fantasia: troppo piccoli noi, troppo grande il film, e poi, come noto a tutti, impossibile avere i diritti.

Nel frattempo la Fallaci continuava ad alimentare il mito, dicendo di no a tutti. Anzi, peggio, dicendo sì, forse, prova a scrivere, e alla fine no, sempre no. Pare che in Italia l’unico a esserci andato vicino sia stato Franco Cristaldi, il produttore, a sua volta mitico, de I Soliti Ignoti, Nuovo Cinema Paradiso e tanti altri film. Erano amici, lei si fidava di lui, ma per qualche motivo le cose non sono andate avanti. È però in America che si costruisce la leggenda. Tra coloro che hanno provato senza successo a convincerla ci sono nomi enormi come Robert Redford e Robert De Niro, per citarne un paio. Sembra che la Fallaci, pur non avendo intenzione alcuna di cedere i diritti del libro, incoraggiasse sceneggiatori e registi a scriverne comunque un adattamento cinematografico, per avere la possibilità di valutare e magari cambiare idea. Ebbene ci ha provato gente del calibro di Michael Cimino, ma tutti con il medesimo risultato. Una volta letto l’Oriana emetteva il suo verdetto, lo stesso d’altronde per tutti i suoi libri: no, questo film non si farà.

C’è di più della frequente, a volte ossessiva gelosia di tanti autori nei confronti di una propria storia (o addirittura “della propria storia”). C’è forse il desiderio di non contaminare in nessun modo il ricordo preciso della realtà. Per un lettore si tratta solo di sovrapporre e confrontare il film che vede con quello che ha creato nella sua testa al momento della lettura. Ma quando quel tempo sei tu che l’hai vissuto, quelle parole le hai dette, quelle ferite le hai viste, quei baci li hai dati e quelle lacrime sei tu che le hai versate, be’, diventa più difficile. Qualunque differenza insopportabile, qualunque messa in scena una finzione.

Immagino una situazione ormai impossibile: Oriana Fallaci seduta in una sala vuota, che assiste a una proiezione privata, per lei, di Un uomo. Ma quanta tensione ci sarebbe stata? Roba da far tremare i polsi ai migliori registi, attori, produttori. E anche se questo non può più accadere un po’ di tensione si sente già, il peso si avverte e qualche fremito i miei polsi cominciano con buon anticipo ad averlo.

Ma perché questo libro scatena così tanto interesse, passione, amore? Perché tanta voglia di raccontare questa storia ancora, come tramandandola, cambiando anche voce, forma, ma dandole nuova vita? Insomma che c’è in Un uomo? La risposta temo sia netta e semplice: tutto.

C’è la rappresentazione dell’eroe, Alekos Panagulis, e del suo percorso, perfetto, esemplare, da manuale di sceneggiatura, se pensiamo al cinema. Senza tacere nulla, raccontando di lui anche le debolezze, i dubbi, i cedimenti, e con questo facendone una figura vera, al tempo stesso epica e autentica, un uomo. C’è una donna, lei, l’Oriana, meravigliosa, a sua volta “eroica”. Una giornalista importante, famosa, di successo, pronta a mettersi da parte, a entrare in un ruolo non suo, scoprendo una parte di sé che forse non le piace, che un po’ subisce e da cui scappa appena può per tornare alla sua indipendenza, intorno a cui ha costruito la sua identità.

C’è tutto, la lotta per gli ideali più alti, la libertà, la giustizia, la democrazia. Con la rabbia di scoprire che coloro per i quali combatti a volte «non sono popolo! Ma gregge, gregge, gregge!». E guardando al consenso popolare di cui tanti regimi dittatoriali godono, non è difficile capire la disperazione di Panagulis.

C’è soprattutto l’amore, una grande storia d’amore, classica eppure modernissima. Un amore fatto di tante cose, di sensi, di pensieri, di ideali condivisi, di somiglianze, di caratteristiche comuni a entrambi. Su tutte quella di non appartenere a nessuno e quindi non aver nessuno pronto a proteggerli. «Noi senza scheda, senza chiesa, senza patria.» E questa non appartenenza li unisce, e qui condanna Panagulis e più tardi negli anni costerà cara anche alla Fallaci, che non avrà mai protezione da, appunto, un partito, una religione, una bandiera. Ma la caratteristica forse prima di Panagulis è il non arrendersi mai, assolutamente mai. Non durante gli interrogatori, le torture, i processi, la prigionia, ma neanche dopo, davanti all’indifferenza, alle mediazioni, alla cattiva politica. Mai un passo indietro. E l’Oriana con lui. «Sei stata una buona compagna. L’unica compagna possibile

L’amore è importante in questo libro. Ci sono pagine che elencano le caratteristiche fisiche, caratteriali e comportamentali di Alekos, e ognuna di queste è una ragione per non essere attratta da lui, un motivo per non amarlo. E poi, senza soluzione di continuità, quello stesso elenco, quelle stesse identiche caratteristiche diventano un rosario di ragioni per amarlo, desiderarlo, volergli correre incontro, abbracciarlo e non lasciarlo andare. E a un certo punto questo amore quasi malato la sua definizione la trova. «Un cancro» lo chiama la Fallaci. Lei che di cancro morirà quasi trent’anni dopo. E c’è qualcosa di orrendamente profetico in come ne descrive il cammino inarrestabile, la progressiva distruzione del corpo attaccato dal male. E si irrita addirittura, non perdonando l’atteggiamento di chi alla fine si arrende, e accetta questa mostruosità come ormai parte di sé, «lo chiamano: il mio male». Lei invece lo ha combattuto sino all’ultimo, lontana da ogni forma di accettazione. E, chiarendo l’appartenenza a mondi diversi, lo chiamava «l’alieno».

C’è tanto in questo libro. C’è l’ironia che filtra tanti momenti e il dolore che non accetta mediazioni. C’è la tragedia e c’è la morte, sfiorata, accarezzata, desiderata e che quando arriva è quello che è: assoluta e finale. C’è davvero tutto in questo libro, e chissà se da questo “tutto” riusciremo a farlo un film e magari bello. Mi piacerebbe e uno dei motivi è che almeno un risultato so che lo otterremmo. Come ormai succede sempre, altri lettori nel mondo scoprirebbero questo libro, entrando dentro la storia che racconta e ne avrebbero il piacere che solo la lettura a questi livelli ti può dare. Altre persone, magari tante, e magari giovani, si unirebbero a quelle donne e quegli uomini che questa storia la conoscono, che questo libro l’hanno letto, e che pensano che storie come questa rendono la vita degna di essere vissuta. E che ognuno di noi ha forse il dovere, ma con sé stesso, di vivere almeno un giorno con quella intensità, quella forza, quell’emozione. Sarebbero ancora di più quelli che credono che in fondo ce lo meriteremmo tutti di avere qualcuno che amiamo così tanto da non preoccuparci mai che il nostro sia un amore ricambiato, qualcuno che ci possa fare accelerare il cuore e fermare il respiro chiamandoci, magari da lontano, e dicendo: «Sono io, sono me».


Domenico Procacci

8 pensieri su “Sono io, sono me

  1. Un libro monumentale. Bello questo intervento di Procacci, non lo avevo mai letto. L’Oriana era e resterà una grande giornalista e scrittrice, una persona scomoda, a tratti anche antipatica, ma coerente con se se stessa, e mi dispiace quanto fango le sia stato gettato addosso.

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    1. io sono a circa un terzo del libro, e ti posso dire che quelle di Procacci sono senz’altro le parole più umane che ho letto finora. è una scrittura troppo poco empatica, per me: troppe medaglie da assegnare, troppi schemi da seguire, troppo autocompiacimento in quello che racconta la Fallaci.
      non che la conosca bene, lei, per carità. di suo ho letto solo La rabbia e l’orgoglio e Insciallah, oltre a diversi pezzi giornalistici. ma percepisco – più della vicinanza o della partecipazione alle storie che racconta – quest’ansia di esserci, di dire che lei c’era, che era lì al momento giusto e che il suo era il punto di vista giusto.
      e, come dici tu, tutto ciò me la rende profondamente antipatica.
      mi piacerebbe invece avere lo sguardo benevolo di Procacci, mi ha colpito tantissimo questa prefazione e mi ha creato grandi aspettative. speriamo di cambiare idea nel corso della lettura, in fondo sono arrivato al punto in cui si sono appena conosciuti..

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  2. Sarei cagacazzina uguale se volessero fare un film su un romanzo che ho scritto su una storia che ho vissuto così intensamente. Ma alla fine lo ha fatto, Procacci? Leggo nel 2014, ma lei era già morta da un po’.

    Comunque mi sono come sempre ritrovata in alcuni passaggi, e la sensibilità vorrà dire che proveremo a metterla da parte stavolta, perché questa prefazione invoglia davvero (meno il tuo commento alla Pina)

    Ti saprò dire se ci sono riuscita, intanto grazie!

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    1. sì ma quantomeno tu cagheresti il cazzo in modo delizioso. lei me la immagino cupa sulla scrivania con la sigaretta perennemente tra le dita che semplicemente fa a pezzi con due parole il lavoro che le hai messo davanti. in modo gelido, sprezzante, annoiato, infastidito.

      e infatti mi par di capire che il film Procacci – questa prefazione suppongo sia del 2010 o giù di lì – non l’ha più fatto girare. sicuro aveva paura che lo spirito dell’Oriana venisse a tormentarlo la notte. ho letto poi che nel 2021 è stata annunciata una serie TV basata sul libro, ma pure lì dopo non s’è più saputo nulla.
      le vicende di Alekos meriterebbero un film, aveva una tempra straordinaria. ma davvero, anche secondo me hanno tutti paura, in qualche modo, di vilipendere l’Oriana, di creare un effetto boomerang nel trasporre in immagini quello che lei chiamava “la verità”:

      dimmi tu se non è antipatica. ecco, è esattamente così in tutta la narrazione. e non a caso le scene di dolcezza e di passione sono di una superficialità avvilente (e non penso perché fosse troppo doloroso, per lei, riviverle). Procacci dice che c’è amore, in questo romanzo. ma io ho un’altra idea dell’amore, di come lo si vive, di come lo si ricorda e di come lo si racconta.

      non vedo l’ora che tra qualche anno mi dici cosa ne pensi tu, io ti aspetto *

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      1. Nelle movenze ed espressioni sicuramente antipatica; sul discorso verità uguale cattiveria uguale bontà, io mi pongo spesso il problema quando non mi sento davvero autentica, ma non credo riuscirei mai a “risolverlo” nel modo in cui ha fatto lei. Anche se ho la sensazione che sotto sotto ci sia qualcosa di non detto con sincerità, come se non riuscisse a mostrarlo e ammetterlo neanche a se stessa.
        Sul discorso Alekos, affascina anche me, infatti son curiosa del secondo estratto.

        Ma piantala tra anni, ho appena letto Le città invisibili in soli tre giorni (…): una parentesi al Conte che mi ha un po’ confuso, ma ha fatto molto bene al mio bisogno di evasione e immaginazione

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      2. che belle le Città invisibili, e beata te che puoi leggertele ad alta voce prima di sognare..

        sull’Oriana secondo me hai proprio colto il punto: qualcosa che non ammette nemmeno a se stessa. è un discorso lungo e non ho sufficienti competenze per affrontarlo per bene, ma la mia sensazione è che lei si ritrovò prigioniera del ruolo che si era costruito, e che fosse una donna molto più fragile di quanto cercasse di non dare a vedere

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      3. Sì, penso sia sempre così in questi casi: l’apparente cattiveria, l’andare a tutti i costi controcorrente col proprio pensiero e dire sfacciatamente cose scomode nasconde sempre una fragilità.

        Me lo son letta un po’ nella mia mente, un po’ sottovoce quando non riuscivo bene a concentrarmi, e mi sentivo come una di quelle città sottili e sospese nell’aria

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