La metamorfosi di Pasquale Zagaria


Come cominciò per lei lo spettacolo?

«L’avanspettacolo. Quando venivano le compagnie, nell’intervallo il pubblico scandiva il mio nome: Zagaria-Zagaria… Io salivo sul palco con una calza della mamma in testa, e imitavo i grandi della musica nera: Don Marino Barreto, Nat King Cole, Armstrong… Un giorno l’impresario mi propose di seguirlo».

E lei?

«Esitavo, ero un ragazzino… Poi incrociai lo sguardo di una ballerina bellissima. Mi sorrise e mi fece il segno: firma… Firmai. Per papà fu un dolore. Mi disse solo: fatti sentire ogni tanto».

Primo ruolo?

«Il figlio ingrato. Quello che doveva inginocchiarsi e baciare le mani dello Zappatore».

Poi partì per Milano.

«Con la valigia dell’emigrante: l’unico vezzo fu legarla, anziché con lo spago, con un foulard di mamma. Sulle case era scritto “non si affitta ai meridionali”, o anche direttamente “non si affitta ai terùn”. Così cancellai con la scolorina la n di Andria, per risultare nato ad Adria, e facevo l’accento veneto: “Ghe xè una camera per mi?”. I soldi finirono subito. Avevo 19 anni da compiere e una fame arretrata. Dormivo nei vagoni sui binari morti della stazione. Un clochard, anzi un barbùn de prufesiùn come si definiva, mi prese sotto la sua protezione: “Quel vagone parte, dormi in quell’altro…”. Fu lui a suggerirmi l’idea delle tonsille».

Tonsille?

«Faceva freddo, sognavo un letto e un pasto caldo, e il barbùn mi chiese: “Ce le hai ancora le tonsille?”. Ce le avevo. “Fattele togliere. Tanto non servono a niente. E ti fai una bella settimana in ospedale”. Ma io non sono malato. “Ma sei un attore, no? Intanto prendi questo”, e mi prepara un intruglio a base di chinino che in effetti mi fa gonfiare la gola. Vado in ospedale, a Baggio, e convinco i medici a operarmi. Non avevo calcolato che dopo ti tengono a digiuno…».

E la dimisero, immagino.

«Avevo più fame di prima, ed ero disperato. Così mi ricordai di quel che diceva mio padre: quando sei nei guai, di’ la verità. Al primario dissi la verità: “Mi sono operato per fame”. Quello capì, mi perdonò, e mi affidò a una suora: “Questo ragazzo ha bisogno di un’altra settimana di ricovero, e di due pasti abbondanti al giorno”».

Quando divenne Lino Banfi?

«Più tardi, a Roma. Lavoravo nel teatro di Graziano Jovinelli, che mi mandò da Totò con una lettera di presentazione: “Ma mi raccomando, non la aprire, non leggere quello che scrivo di te”».

E lei?

«Io ovviamente aprii la lettera, con il trucco del vapore, e la lessi. C’era scritto: “Caro Totò, hai davanti un giovane di talento, che non si smarrisce nei congiuntivi”. Praticamente una laurea. Totò mi chiese: come ti chiami? E io: Pasquale Zagaria, in arte Lino Zaga. E lui: non va bene, lo devi cambiare».

Perché?

«È quello che gli chiesi. E lui: “Abbreviarsi il nome porta bbuono, guarda me che mi chiamo Antonio. Ma abbreviarsi il cognome porta malissimo”».

Ma perché Banfi?

«Raccontai tutto al mio impresario, che era pure maestro elementare. Lui aprì il registro di classe e lesse alla prima riga: Aurelio Banfi. Gli ho rubato il cognome, e non l’ho mai conosciuto, mi piacerebbe incontrarlo… Eravamo in trattoria, e brindammo a Lino Banfi. L’oste si unì al brindisi: “Speriamo che tu abbia successo, così mi pagherai i conti”».


Aldo Cazzullo

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