Un cancro


Guardai l’orologio: le cinque. Ti immaginai nell’aula, intento a seguire il dibattito senza seguirlo, nervoso, stordito dalla mia condotta ambigua, e una voglia di piangere mi salì alla gola. La raschiai con un colpo di tosse che risuonò nel silenzio della sala semideserta. Una monaca si girò, l’americano mi lanciò un’occhiata strana. Era un bellissimo uomo, alto e snello, coi capelli grigi e le pupille azzurre, la finezza vigorosa che hanno certi cavalli di razza, e gli restituii l’occhiata pensando quanto sarebbe stato più difficile se tu avessi avuto i capelli grigi e le pupille azzurre, una taglia alta e snella, la finezza da cavallo di razza.

Paradossalmente, non ero innamorata di te.

Non lo ero mai stata, nemmeno durante i sette giorni di felicità o nel periodo della casa nel bosco, perlomeno nel senso che di solito si dà a questo termine. Parlo del desiderio fisico che annebbia la vista e interrompe il respiro al solo guardare la creatura amata, del brivido che ti intirizzisce e ti scioglie al solo sfiorarle una mano, una guancia, sicché tutto in lei diventa unico e insostituibile, perfino l’odore del suo fiato, il sudore della sua pelle, i suoi stessi difetti che anziché difetti ti sembrano qualità deliziose: hai bisogno di lei come dell’aria, dell’acqua, del cibo, e in tale schiavitù muori di mille morti ma sempre per resuscitare, esserle schiavo di nuovo. Questi sintomi io li conoscevo, ma in coscienza non potevo dirmi d’averli avvertiti in nessun momento per te. Ad esempio, il tuo corpo non mi attraeva, non capivo le donne che lo giudicavano bello e se ne invaghivano perdutamente tradendo il marito, umiliandosi pur d’essere scaraventate cinque minuti contro un muro o su un letto, poter raccontare agli altri o a sé stesse d’averti toccato; fin dal primo istante ti avevo giudicato bruttino e continuavo a giudicarti tale. Quegli occhietti piccoli, diversi fra loro nel taglio e nella collocazione, uno più alto e uno più basso, uno più chiuso e uno più aperto, quel naso spampanato, disossato, quel mento breve e dispettoso, quelle guance che si riempivano appena ingrassavi un po’. Quei capelli grossi e untuosi che non pettinavi mai, quel corpo tarchiato, spalle troppo tonde, braccia troppo corte, mani troppo tozze, dalle unghie strappate anziché tagliate. Avevi imparato a strapparle in prigione dove non avevi le forbici, e continuavi a strapparle malgrado le mie proteste d’orrore. E poi quante cose mi irritavano in te! Il tuo modo di mangiare, per dirne una: così maleducato, ingordo. Ficcavi in bocca certi bocconi che nemmeno un cavallo sarebbe riuscito a ingoiarli. Il tuo modo di fare il bagno, per dirne un’altra. Fare il bagno per te significava coccolarti nell’acqua come un’anatra, sonnecchiarci ore e ore senza usare il sapone, uscirne di colpo per infilarti bagnato nel letto, infradiciarmi tutta, strillare contento ho-freddo, ho-freddo! E il tuo vitalismo esagerato, la tua sessualità golosa, ringhiosa, che quando aggrediva coi suoi slanci felini sollevava in me un impulso alla fuga; bisognava controllarsi, mentire, perché tu non capissi che la partecipazione era un atto cerebrale, sostenuto da una tenerezza misteriosa, lacerante e struggente, un trasporto che nasceva da non so cosa ma non certo dai sensi.

Non ero venuta a te succhiata
da un richiamo dei sensi.

Ricordavo bene l’angoscia che avevo provato a udirti camminare su e giù dinanzi al vetro smerigliato della porta, in dubbio se entrare o no, ricordavo bene il gelo che mi aveva intirizzito a intravedere le tue dita sulla maniglia, e il sollievo che mi aveva alleggerito quando le dita s’erano ritratte. Possibile che fosse dovuto solo al presentimento di una tragedia a venire? Ricordavo altrettanto bene l’inquietudine che mi bucava la sera in cui ero tornata per trovarti in ospedale, il segreto sgomento all’idea che toccasse a me riempire un vuoto di cinque anni, subire una voracità a lungo inappagata. No, neanche sull’incanto della prima notte i sensi avevano avuto un’influenza, sarebbe stato disonesto dire che la tua passione aveva suscitato la mia, e anche dopo era stato così: negli abbracci forsennati o dolcissimi non era il tuo corpo che cercavo bensì la tua anima, i tuoi pensieri, i tuoi sentimenti, i tuoi sogni, le tue poesie. E forse è vero che quasi mai un amore ha per oggetto un corpo, spesso si sceglie o si accetta una persona per la malìa inesplicabile con la quale essa ci investe, o per ciò che essa rappresenta ai nostri occhi, alle nostre convinzioni, alla nostra morale; però il veicolo di un rapporto amoroso rimane il corpo e, se quello non ti seduce, qualcos’altro deve pur sedurti. Il carattere, ad esempio, il modo di vivere o di comportarsi. E col tempo avevo scoperto che neanche il tuo carattere mi piaceva molto: con le sue smoderatezze, le sue ferocie, le sue sfuriate cattive e senza senso, le sue ebrezze del primo stadio, secondo stadio, terzo stadio, le sue durezze di roccia, le sue chiusure da ostrica. Più tentavo di aprire l’ostrica per estrarne la perla più essa mi resisteva colando un liquido nero, più scavavo la roccia in cerca di rubini e smeraldi più trovavo sassi e carbone. Il tuo bosco era pieno di sterpi, di spine, appena vi coglievo un fiore mi graffiavo, mi insanguinavo. E l’arroganza grazie a cui pareva che tutto ti fosse permesso, la faciloneria con cui liquidavi situazioni e problemi, le contraddizioni in cui precipitavi. Tutte tare per me deplorevoli. Ma allora perché avevo avuto quell’impulso di correrti dietro, abbracciarti, sentire i tuoi baffi contro la mia guancia, perché ora sentivo il bisogno di raschiarmi la gola e ricacciare indietro le lacrime?

Guardai di nuovo l’orologio: le cinque e mezzo. Se il dibattito si fosse davvero concluso alle sei, tra poco l’appartamento di via Kolokotroni avrebbe vibrato sotto la tua scampanellata e avresti appoggiato il naso al ferro battuto dello spioncino, in attesa di vedermelo aprire e di annunciarmi festoso: «Sono io! Sono me!». Lo spioncino sarebbe rimasto chiuso, ti avrebbe risposto il silenzio, e lì per lì non ci avresti badato. Sicuro di uno scherzo, saresti entrato con la tua chiave, in punta di piedi per cogliermi di sorpresa, in punta di piedi avresti frugato di stanza in stanza: «Dove ti sei nascosta?». E non mi avresti trovato. Allora, deluso, avresti cercato un biglietto che avvertisse sono-fuori-torno-subito, come spesso facevo, ma non avresti trovato neanche quello. Non avevo lasciato nulla di scritto, avevo preferito spiegarmi cancellando ogni traccia di me. Dopo che l’ascensore era sceso portandoti via coi due giornalisti, avevo vuotato i cassetti di tutte le mie cose, l’armadio di tutti i miei indumenti, avevo riempito due grandi valige e una scatola, le avevo nascoste nel ripostiglio insieme agli oggetti più insignificanti, bottiglie di profumo quasi vuote, spazzolini, forcine, pinzette, con tanta cura che non era rimasto nemmeno un capello, infine avevo ficcato l’essenziale in una borsa da viaggio, avevo messo le chiavi sul letto per dimostrarti che non mi servivano più e… Un urto di vomito mi chiuse lo stomaco. Eppure non ero fisicamente gelosa di te. Non lo ero mai stata, nemmeno all’inizio quando m’ero accorta che accendere desideri solleticava la tua vanità, nemmeno in seguito quando i tuoi riti dionisiaci erano esplosi e t’avevo visto mordere la pipa fissando l’elefantessa e l’efebo secco che danzavano al buzuki. Parlo della gelosia che svuota le vene all’idea che l’essere amato penetri un corpo altrui, la gelosia che piega le gambe, toglie il sonno, distrugge il fegato, arrovella i pensieri, la gelosia che avvelena l’intelligenza con interrogativi, sospetti, paure, e mortifica la dignità con indagini, lamenti, tranelli facendoti sentire derubato, ridicolo, trasformandoti in poliziotto inquisitore carceriere dell’essere amato. Forse per cerebralismo, coerenza al principio che i rapporti d’amore debbano essere reinventati e anzitutto scrostati delle scorie, dei fardelli che a lungo andare li rendono soffocanti, m’ero sempre proibita di provare simili sofferenze per te. Saperti desiderato anzi mi lusingava, vederti aperto alle tentazioni mi divertiva, a volte le due cose aizzavano addirittura il gusto di disputarti a un’ingordigia che io stessa nutrivo essendoti compagna. Solo negli ultimi tempi i tuoi eccessi mi avevano addolorato, e non per il fatto di sapermi sostituita un’ora o una notte bensì per il torto che facevi a te stesso esponendoti a pettegolezzi, accettando i costumi di una società che volevi cambiare, adeguandoti alle sozzure di una sottocultura dove il culto del fallo umilia l’intelligenza. Tuttavia neanche allora avevo ceduto all’indignazione che ammutolisce e spinge a chiuderci la porta alle spalle dopo aver lasciato le chiavi sul letto. Quindi perché oggi era successo?

Per la terza volta guardai l’orologio: le sei. Un intuito mi diceva che il dibattito s’era davvero concluso alle sei e che stavi avviandoti a casa, anzi salendo con l’ascensore, anzi suonando alla porta, anzi entrando in punta di piedi per cogliermi di sorpresa, e ti vedevo frugare di stanza in stanza, cercare un biglietto che non c’era, aggrottare la fronte, aprire i cassetti, trovarli vuoti, accorgerti che mancava tutto, infine schiudere il ripostiglio, scorgere le due valige e la scatola, impallidire impietrito dalla certezza. Bocca chiusa, mascelle serrate, narici dilatate. E lo sguardo? Quello di un lupo che si accinge a sbranare o di un cane preso a calci perché ha fatto pipì sul tappeto? La testa mi girò avvolgendo in una spirale di nebbia l’americano coi capelli grigi, le monache col rosario, gli arabi ammantati nelle tuniche bianche. Mi aggrappai al tavolino, accesi una sigaretta con mani che tremavano. Forse non ero innamorata di te, o non volevo esserlo, forse non ero gelosa di te, o non volevo esserlo, forse m’ero detta un mucchio di verità e di menzogne ma una cosa era certa:

ti amavo come non avevo mai amato
una creatura al mondo,
come non avrei mai amato nessuno.

Una volta avevo scritto che l’amore non esiste, e se esiste è un imbroglio: che significa amare? Significava ciò che ora provavo a immaginarti impietrito, perdio, con lo sguardo di un cane preso a calci perché ha fatto pipì sul tappeto, perdio! Ti amavo, perdio. Ti amavo al punto di non poter sopportare l’idea di ferirti pur essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i tuoi difetti, le tue colpe, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le tue miserie, le tue volgarità, le tue contraddizioni, il tuo corpo con le sue spalle troppo tonde, le sue braccia troppo corte, le sue mani troppo tozze, le sue unghie strappate. E certo l’amore non ha per oggetto un corpo, però anche se eravamo separati da un oceano quel corpo io lo portavo a letto con me, nel ricordo lo abbracciavo come quando abitavamo la casa nel bosco, d’inverno, e la notte faceva freddo e ci scaldavamo così, la mia testa contro la tua testa, il mio ventre contro il tuo ventre, le gambe annodate, oppure quando stavamo distesi nella camera di via Kolokotroni l’estate, i pomeriggi erano afosi e ci scostavamo ridendo, via-roba-calda, ma c’era sempre un momento in cui i tuoi occhietti strani, uno più alto e uno più basso, uno più chiuso e uno più aperto, mi ubriacavano di dolcezza, sicché mi chinavo a baciare le tue palpebre gonfie, mandorle di carne, accarezzare con la punta dell’indice il tuo naso buffo, i tuoi baffi spinosi, le tue labbra increspate da tante rughine, labbra di vecchio dicevi, e strisciandoti il dito sul mento poi sulla mascella poi sullo zigomo risalivo lentissimamente agli orecchi, perfetti questi, ben disegnati, e tu subivi felice che ti ammirassi almeno gli orecchi: «Che orecchi! Che orecchi!». E forse il tuo carattere non mi piaceva, né il tuo modo di comportarti, però ti amavo di un amore più forte del desiderio, più cieco della gelosia: a tal punto implacabile, a tal punto inguaribile, che ormai non potevo più concepire la vita senza di te. Ne facevi parte quanto il mio respiro, le mie mani, il mio cervello, e rinunciare a te era rinunciare a me stessa, ai miei sogni che erano i tuoi sogni, alle tue illusioni che erano le mie illusioni, alle tue speranze che erano le mie speranze, alla vita! E l’amore esisteva, non era un imbroglio, era piuttosto una malattia, e di tale malattia potevo elencare tutti i segni, i fenomeni. Se parlavo di te con gente che non ti conosceva o alla quale non interessavi, mi affannavo a spiegare quanto tu fossi straordinario e geniale e grande; se passavo dinanzi a un negozio di cravatte e camicie mi fermavo d’istinto a cercare la cravatta che ti sarebbe piaciuta, la camicia che sarebbe andata d’accordo con una certa giacca; se mangiavo in un ristorante sceglievo senza accorgermene i piatti che tu preferivi e non che io preferivo; se leggevo il giornale notavo sempre la notizia che a te avrebbe interessato di più, la ritagliavo e te la spedivo; se mi svegliavi nel cuore della notte con un desiderio o una telefonata, mi fingevo più desta di un fringuello che canta al mattino. Gettai via la sigaretta con rabbia. Ma un amore simile non era neanche una malattia, era un cancro!

Un cancro.

Come un cancro che a poco a poco invade gli organi col suo moltiplicarsi di cellule, il suo plasma vischioso di male, e più cresce più divieni cosciente del fatto che nessuna medicina può arrestarlo, nessun intervento chirurgico può asportarlo, forse sarebbe stato possibile quand’era un granellino di sabbia, un chicco di riso, una voce che grida egò s’agapò, un amplesso mentre il vento fruscia tra i rami d’olivo, ora invece non è possibile perché ti ruba ogni organo, ogni tessuto, ti divora al punto che non sei più te stessa ma un impasto fuso con lui, un unico magma che può disfarsi solo con la morte, la sua morte che sarebbe anche la tua morte, così tu mi avevi invaso e mi stavi divorando, ammazzando. V’è una caratteristica lugubre negli ammalati di cancro: appena capiscono che esso ha vinto o sta per vincere, cessano di opporgli i farmaci, il bisturi, la volontà e si lasciano uccidere con sottomissione, senza maledirlo, neanche rimproverarlo del martirio che esige. Il-mio-male, lo chiamano con affettuosa indulgenza, quasi fosse un amico, un padrone, o un possesso di cui non possono fare a meno, e quel “mio” risuona a volte un accento soave: lo stesso che gorgogliava nella mia voce appena pronunciavo il tuo nome.


Oriana Fallaci

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