Il vero inquisitore non picchia. Parla, intimidisce, sorprende. Il vero inquisitore sa che un buon interrogatorio non consiste nelle torture fisiche ma nelle sevizie psicologiche che seguono le torture fisiche. Sa che col corpo ridotto a un ammasso di piaghe l’interrogato sarà felice di rifugiarsi in qualcuno che lo tormenta con le parole e basta. Sa che dopo tante sofferenze niente come l’annuncio pacato di altre sofferenze piegherà la sua resistenza fisica e morale. Il vero inquisitore non si mostra mai coi personaggi della commedia che ha nome Interrogatorio: per rivelarsi aspetta che il sipario sia calato sul primo atto. Soltanto allora, come un regista che coordina il lavoro della sua troupe, egli interviene: graduando le domande con pazienza, studiando le risposte con intelligenza, accettando i silenzi con civiltà. Tanto a lui non importano rivelazioni straordinarie o immediate. Gli interessano piuttosto piccole notizie con cui comporre il mosaico che gli consentirà di individuare i punti vulnerabili della sua vittima, provocare in lei un senso di incertezza e di paura, infine l’abbandono totale. Per questo, quando l’inquisitore si presenta, non basta rifiutargli risposte.
Bisogna rifiutargli anche il dialogo,
ogni forma di dialogo,
e tenere il cervello all’erta.
Naturalmente è difficile: le torture fisiche diminuiscono il funzionamento cerebrale. Però è necessario sforzarsi se si vuole capire dove è giunta l’inchiesta, quel che hanno scoperto o non hanno scoperto. Occhi e orecchi aperti, dunque. E memoria, fantasia, perché l’inquisitore non ha fantasia: è un tipo che vede il potere come un fenomeno esterno, un cumulo di mezzi per conservare lo status quo senza affaticarsi nella problematica. Non che sia un cretino o un vanitoso assetato di gloria: spesso non è sollecitato nemmeno da ambizioni personali, si accontenta d’essere uno sconosciuto appena autorevole e cioè di stare nell’anticamera del Potere. Non che egli sia necessariamente malvagio o corrotto: spesso a muoverlo sono un odio sincero per il disordine e un amore sincero dell’Ordine. Ma il potere totalitario, oppressore, è il suo dio; il modello che egli ha dell’ordine è la simmetria delle croci in un cimitero. In tale simmetria si incasella, lui stesso, senza discutere: non può immaginare nulla di nuovo o di diverso.
Il nuovo e il diverso lo spaventano.
Devoto quanto un prete a sistemi già collaudati, divinizza i regolamenti e vi obbedisce nel modo in cui obbedisce ai banali canoni dell’eleganza: abito blu, camicia bianca, cravatta blu. Il vero inquisitore è un uomo lugubre. Filosoficamente è il vero fascista, cioè il fascista privo di colore che serve tutti i fascismi, tutti i totalitarismi, tutti i regimi purché servano a mettere gli uomini in fila come croci in un cimitero. Lo trovi ovunque vi sia un’ideologia, un principio assoluto, una dottrina che proibisca all’individuo d’essere sé stesso. Ha uffici in ogni contrada della Terra, capitoli in ogni volume di storia, ieri serviva i tribunali dell’Inquisizione cattolica e del Terzo Reich, oggi serve la caccia alle streghe delle tirannie orientali e occidentali, di destra e di sinistra.
Egli è eterno, onnipresente, immortale.
E mai umano.
Forse si innamora, all’occorrenza piange e soffre come noi, forse ha un’anima. Ma, se ce l’ha, essa giace dentro una tomba così profonda che per disseppellirla ci vorrebbe un bulldozer. Se non si capisce questo, non gli si può tener testa e resistergli diventa semplicemente un atto di orgoglio personale. Intendiamoci, l’orgoglio personale è legittimo anzi doveroso. Però, chiuso in sé stesso, è un errore politico: tener testa all’interrogatorio non significa solo dimostrare un eroismo da san Sebastiano o da martiri del Colosseo, significa anche umiliare l’inquisitore sul piano professionale e mentale, indurlo a dubitare di sé e del sistema che egli rappresenta, vendicare tutti coloro che furono schiacciati dalla sua aggraziata ferocia.
Alexandros Panagulis