La poesia, è questa la vera libertà di Pierluigi Cappello


La lettura, la scrittura, la poesia sono state le intime compagne di Pierluigi Cappello. Forse il più splendente tra i poeti italiani contemporanei, Pierluigi Cappello è vissuto nel suo Friuli cinquant’anni, trentaquattro dei quali tra il letto e la sedia a rotelle: un corpo insensibile il suo, una barriera da trascinarsi addosso, impossibilitato a compiere quei gesti elementari che ho sempre creduto fossero la premessa per vivere, per provare esperienze e quindi per raccontarle, per trasmetterle attraverso le parole. Pierluigi Cappello, con la sua esistenza, con la sua libertà, mi ha smentito. Ed è forse per far conoscere e comprendere a chi l’ha letto e amato le radici da cui è scaturita quella vitalità, che Cappello per una volta ha abbandonato i versi e si è cimentato in un’opera in prosa.

Questa libertà [Milano, Rizzoli, 2013] è un romanzo, un saggio, un poema. Un racconto di formazione, come lo definì lo stesso Cappello. E affronta in cinque episodi le tappe più significative del suo risveglio di poeta. Una crescita fatta di immagini, di ricordi vividi, di parole e di sguardi che si sono impressi sulla sua parola e sul suo sguardo.


RACCONTARSI È DARE IL PROPRIO CORPO ALLA PAROLA

Cappello parla non a caso di “una moltitudine di sguardi” che si sovrappongono e costituiscono, più o meno consapevolmente, a seconda della sensibilità di ciascuno di noi, un’eredità che si tramanda di essere umano in essere umano, di popolo in popolo, fino a che i luoghi e il tempo stesso non ne vengono impregnati. Condividere la propria moltitudine di sguardi con un lettore non è semplice. Bisogna aprirgli i recessi del proprio passato, il solletico e il dolore dei ricordi, il buio e la luce dell’esperienza. Declamare la propria intimità, facendolo senza la maschera della metafora, della poesia. Senza la censura del silenzio che lascia adito all’immaginazione, che può fuorviare. Ci vuole coraggio per raccontarsi, tanto coraggio. E Cappello ce l’ha.

Ci sono parole senza corpo e parole con il corpo. Libertà è una parola senza corpo. Come anima. Come amore. Parenti dell’aria e quanto l’aria senza confini definiti, resterebbero puro suono se abbandonate alla vaghezza dei rotocalchi o dei talk show. Hanno bisogno di qualcuno che presti loro la sua carne, il suo sangue e i suoi limiti perché diventino concrete. Di versarsi in un corpo che si faccia vaso perché ne possano assumere la forma e la storia. E poiché ogni corpo è diverso dall’altro, queste parole respirano diversamente a seconda dell’individuo cui vanno incontro. E, se ogni individuo è un inizio e una fine con una storia in mezzo, sono parole che hanno bisogno di essere raccontate.

La storia in mezzo è quella di un ragazzo nato e cresciuto in un contesto che pare una dimensione parallela dell’Italia com’è oggi. A Chiusaforte, paesino collinare incastrato tra le montagne che separavano il mondo occidentale dal blocco sovietico, negli anni ’60 un bambino veniva allevato più o meno come accadeva cinquecento anni fa. Prima degli elettrodomestici, prima dell’autostrada, prima dello spaventoso terremoto del 1976, prima di Internet, quell’angolo di Friuli era una comunità di alberi, rocce e persone in cui ogni aspetto della giornata risultava simbiotico. E nella serenità di un tempo apparentemente immutabile le stagioni e i loro colori, le storie di chi era venuto prima accendevano la fantasia di Pierluigi e la sua smania di vedere.



ALL’ORIGINE DELLA POESIA: PASSIONE E CONTEMPLAZIONE

Passione e contemplazione sono le due parole in cui Cappello dice di aver riconosciuto la propria indole. E io ritrovo nella sua confessione una delle mie convinzioni più profonde, quella che riguarda l’origine della poesia. È l’osservazione, o meglio la contemplazione ciò che fa scaturire immagini, suoni, versi, bellezza. Le emozioni, i sentimenti, le esperienze, gli incontri sono “semplicemente” argomenti, cose di cui si può parlare componendo un poema come aspettando dalla parrucchiera che la nuova tinta faccia presa sui capelli. È osservando che si scoprono le relazioni tre le cose, tra le immagini, e le parole non sono altro che i vascelli su cui navigano per congiungere sponde a volte lontanissime. I nostri ricordi, i nostri sguardi, le nostre speranze, le nostre mancanze. Interi vissuti si ricompongono leggendo le parole scelte da chi sa sceglierle.

E l’impressione che quelle parole fossero state scritte proprio per me, rompendo la solitudine di quel preciso momento in cui venni tentato dall’appoggiare la fronte sul vetro, diventò il sangue e l’ossigeno che attraversavano la mia carne, lasciandomi l’idea che, in qualche caso, il dolore può essere compreso. Che il dolore può essere portato dentro intatto e inoffensivo, come un proiettile che si è fermato accanto al cuore e che nessun chirurgo è stato capace di estrarre. Tutto qui, se si ha la fortuna che le parole ti vengano incontro e che, nella comprensione, sciolgano il nodo del male in una forma di desolata serenità che ti accompagna per il resto della vita.

È il primo passo verso la maturazione di una nuova consapevolezza, di un sentire più esteso, è la scoperta di Hemingway, Leopardi, Baudelaire, Rimbaud, Montale e di altri autori “capaci di cancellare il mondo che vive ogni giorno e di muovere in lui lo sconcerto di sentirsi come l’evaso di un penitenziario”.

Il 10 settembre 1983 la metafora del penitenziario si trasforma in un “fine pena mai” per il suo corpo: un incidente motociclistico in cui un suo amico perderà la vita spezza la schiena e la vita di Pierluigi, sedicenne promessa dell’atletica col sogno di diventare un pilota aeronautico. È impossibile raccontare in poche pagine un anno e mezzo di riabilitazione in ospedale, e per questo Cappello si concentra sul primo e sull’ultimo giorno, le estremità di una ghigliottina che trancia la sua esistenza in due pezzi, faticosamente ricomposti proprio attraverso la poesia.

Il resto è vita: chiunque abbia letto i versi di Pierluigi Cappello sa che riflettono le abitudini di un uomo (solo) fisicamente limitato: si tratta di epopee racchiuse nelle tazzine di caffè lasciate sulla scrivania, di scorci universali che scintillano oltre il prato bagnato dalla pioggia, la prospettiva del quotidiano che si fa slancio, fuga, respiro, volo. Un’esattezza di espressioni vaghe e dense, robuste come pietre, lievi come aliti di vento, che avvince. Lo stesso Questa libertà è scritto con un linguaggio a metà tra prosa e poesia, e non di rado, durante la lettura, ci si incanta, ci si lascia cullare dalle parole che cingono i ricordi e i desideri di Cappello, che potrebbero essere i nostri, adesso.



COSTRETTO SULLA SEDIA A ROTELLE?

L’ho letto diverse volte facendo ricerche tra i vari articoli dedicati a Pierluigi Cappello, e persino in alcune prefazioni ai suoi libri: “Costretto sulla sedia a rotelle”. È un’espressione che non piace ai benpensanti e a molti tra gli stessi paraplegici, per i quali anche parole come “disabile” sono svalutanti: insulti a prescindere che sviliscono l’identità di una persona e che andrebbero sostituiti con definizioni dal significato più diluito, come “diversamente abile” o “persona con disabilità”. Io sinceramente non mi sono mai fatto problemi al riguardo: non credo che le parole bastino a ferire o peggio a ghettizzare le persone. Sono piuttosto le intenzioni a farlo. Ma nel caso di Pierluigi Cappello mi sento davvero di rifiutare l’utilizzo della parola “costretto”. Non per buonismo o per qualche romantica forma di deferenza nei confronti di un grande artista, ma perché credo sul serio che per il modo in cui è riuscito a convivere con l’handicap che l’ha colpito, Cappello sia stato assai più libero di uomini e donne – loro sì – costretti dalla propria indolenza al silenzio, alla cecità, all’inazione.

In giornate che si presentano così in salita è meglio assecondare il ristagno delle forze, addensarsi intorno al nucleo delle azioni quotidiane e non dare per scontato nulla: ti prepari un caffè e stai attento a non sporcare il lavello mentre carichi la moka, fai leva su tutta la tua concentrazione nel lavare la tazzina e nel riporla asciutta e, quando torni dalla cucina al tavolino dove lavori, cominci con il mettere un argine al disordine partendo dalla boscaglia della posta che si è impadronita del tavolo in settimane di disattenzione. Ci vuole un passo liturgico, però: bisogna attribuire a ogni proprio gesto la forza simbolica del gesto appropriato; pensare, e dopo sentire, che da quella sequenza di azioni dipende il tuo contributo all’ordine del mondo. L’ala della colomba che a ogni battito riduce di un grano la montagna.


IL CONTRARIO DI TUTTO? È QUALCOSA

Detesto abbastanza Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti, più o meno da sempre e oggi più che mai. Non sto qui a spiegare perché. Basti sapere che sono rimasto molto molto stupito quando ho letto cosa ha scritto delle poesie di Pierluigi Cappello, che sostiene di ammirare grandemente. Sono parole bellissime, quelle di Jovanotti, e mi ci ritrovo in pieno. Lascio dunque a lui le ultime cose da dire.

Sono agitato, irrequieto, distratto, indisciplinato, a volte sono allegro, a volte faccio finta di esserlo, perché non so come si fa a mostrarsi triste senza far intristire gli altri, e non mi piace far intristire gli altri. L’età non ha placato questa roba. L’idea che ho del mondo non resiste più di qualche minuto, spesso nemmeno il tempo di una canzone: per questo le scrivo, per fissare qualcosa che non si può fissare.

Poi apro un libro di Pierluigi. Poi apro questo libro di Cappello, e mi ritrovo di fronte a quelle poche frasi che vanno accapo spesso con tutto quel bianco intorno. Faccio esperienza della poesia, che è una folgorazione, è il contrario di tutto, però senza essere il niente, ma il qualcosa. Il contrario di tutto non è niente, ma è qualcosa. Qualcosa di misterioso e vivo, parole che invece di venire lette sono loro a leggere me. Sento la forza di gravità eterna, è lei a far volare le parole, che le si oppongono come una cosa che vola. E proprio per alzarsi in volo e mantenere il proprio assetto sfruttano le regole inflessibili della gravità.

Mi sento osservato da queste poesie. Mi capita, in questi giorni, dopo averle lette, di ritrovarmele intorno nei momenti più disparati, come il ricordo del profumo della mia mamma che da qualche anno non c’è più, come qualcosa che mi appartiene in modo dolce e feroce. Penso a cosa penserebbero queste poesie di me, di quello che faccio, della mia vita che vaga nel dappertutto. «Dappertutto non è il posto in cui cercare» mi risuona nel cuore mentre cerco dappertutto.

16 pensieri su “La poesia, è questa la vera libertà di Pierluigi Cappello

  1. Mi è capitato di tanto in tanto di leggere sue poesie, ma non sapevo affatto della sua vita sfortunata 😮 .
    Quanta ragione ha riguardo il fatto che le metafore sono un ottimo abito in cui nascondersi!!
    Articolo pieno di parole profonde e commoventi, davvero bello!! Comprese le parole del tuo amatissimo Jovanotti 😌

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    1. lo sai che nemmeno io sapevo che fosse su una sedia a rotelle? lui però ha sempre detto che anche senza quell’incidente sarebbe stato poeta lo stesso, anzi un poeta migliore.

      il libro è veramente illuminante, su tante tantissime cose

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      1. Uuuh, non l’avevo capito!! 😆 allora brava madre u.u .

        Riguardo il fatto che sarebbe stato poeta anche senza l’incidente, l’ho letto anch’io in un articolo! Ovviamente, solo aver letto il tuo.

        Immagino che il libro sia illuminante 😍 …e poi mi viene da ridere quando dei personaggi famosi, dall’alto delle loro posizioni, sfornano “perle di saggezza”.

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      1. Non mi ricordo se effettivamente quella l’aveva postata Titti, ma sicuro Cappello lo conoscevo e apprezzavo da prima di conoscere te, e mi sembra di avertene parlato io per prima. Ma magari mi sbaglio.

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      2. è vero, me la facesti leggere tu Gerico, la notte dell’8 maggio.

        quindi ti ringrazio qui pubblicamente per avermi fatto scoprire Pierluigi Cappello.

        questa bellissima recensione è dedicata a te di diritto

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      3. Ma lo detesti per cosa poi?
        Io da adolescente lo ascoltavo (ora no), non so quante volte avrò ascoltato: ‘io ti cercherò’ e ‘chissà se stai dormendo’.
        “… e non ti mettere tutto quel trucco che ti sta male, a me mi piaci perché sei dolce quando sei normale” (su alcune cose la pensate anche allo stesso modo, vedi?)

        E comunque dobbiamo ammettere che ha una faccia simpatica.

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