È solo una di quelle giornate difficili


Mi sedetti a cavalcioni sul davanzale e mi girai verso la ballerina.

Era ridotta uno schifo, impiastricciata di fuliggine e cenere da fare impressione. Il corpo, coperto da un reticolo di marchi a fuoco e punteggiata di ustioni da fiammifero, sembrava vestito di tutto punto. Non sarebbe mai più stata nuda, con addosso quel tessuto intrecciato di cicatrici, con la pelle trasformata in un assortimento di trecce e pois.

Mi disse: «Cosa?»

Io non avevo detto niente. «Non c’è nient’altro che ti va di fare?»

«Non lo so».

«Fuori piove».

«Perché?»

«Perché?», ripetei io. «Perché fuori piove?»

Nella stanza l’aria era calda e viziata come in un forno, e ogni movimento era come annientato dalla cottura. Aprii un’altra finestra nel cucinino. Subito una specie di brezza polmonare gonfiò una tenda verde verso l’interno della stanza, espandendo lo spazio. Vidi una fetta di pancarrè dimenticata nella fessura cromata del tostapane, una bustina di tè usata appoggiata sul bordo del lavello e un mozzicone di sigaretta che si infradiciava sul fondo. Quando tornai in camera da letto la ballerina non si era mossa.

In mezzo a quelle ceneri
ci avrebbe anche dormito,
come un uccello dalle penne nere.

 

Mi stava dando le spalle, e io mi avvicinai, ma con i segni delle ustioni che le coprivano il corpo… come si faceva anche solo ad abbracciare una donna così? Dove la vai a toccare una persona a cui fa male dappertutto? Mi fermai. Non le avevo mai visto la schiena, ed era intatta. La pelle era perfetta, di un azzurro freddo e invernale nei punti in cui appena sotto scorreva il sangue. Mi soffiai sulle dita per scaldarle e le posai una mano fra le scapole, lievemente, come se premendo troppo potessi lasciare un segno.

«Che ne dici di darti una pulita?», dissi.

«Boh», disse lei tirando su col naso. «Non lo so».

In bagno chiusi lo scarico della vasca con un tappo secco e scheggiato e aprii i rubinetti regolandoli fino a che l’acqua che mi scorreva sul polso non ebbe raggiunto una temperatura alta, tropicale. Guardai tutti gli ingredienti che avevo intorno. C’erano barattoli pieni di cosette che sembravano caramelline, e ce ne versai dentro un po’. Gli affari che sembravano zaffiri erano particolarmente graziosi, e gettai un miscuglio di capsule gialle e verdi nella vasca, seguite da una pillola che produsse un sacco di bollicine e fece diventare l’acqua di un celeste caraibico. Abbandonai ogni idea di alchimia e mi diedi soltanto alla pazza gioia. Pino silvestre, Erba della prateria, Neve di montagna, Brezza marina. Una volta cominciato, non vedevo ragione di fermarmi: ginepro, vaniglia, ribes. Un misurino di olio di mandorle, uno spruzzo di bain moussant, qualche granello azzurro e rosa preso da una scatoletta che si rivelò essere una normalissima confezione di bagnoschiuma.

«Ok», dissi, chiudendo la porta per non far sfuggire il vapore.

Lei non si era mossa dalla sua posizione sul letto. Mi misi un suo braccio attorno alle spalle. Per essere una ballerina non era affatto leggera come una farfalla, in quel momento. I piedi strusciavano sul pavimento come fossero gli ultimi due dodo rimasti in vita. Temevo che quando l’avrei adagiata nella vasca sarebbe scivolata sul fondo. La misi a sedere dritta. Con le volute di vapore che si arricciavano sul soffitto e la schiuma inebriante che si alzava fin oltre il bordo della vasca, ormai il bagno sembrava un’unica immensa nuvola.

«Una candela», disse lei.

Io tirai la catenella di una lampadina spoglia appesa sopra il lavandino. «Per stasera basta candele».

Afferrai una soffice pezzuola bianca dalla mensola e mi sedetti accanto alla vasca, su un cuscino di acqua saponata.

«La mia vita è così semplice che la potrebbe vivere anche un bambino di un anno», disse lei.

«È solo una di quelle giornate difficili», dissi io.


Charles D’Ambrosio

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