Fotogramma


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Istintivamente si voltò verso la fonte del rumore. “Una pessima giornata!” ebbe il tempo di pensare con fare stanco, colla fronte corrugata, come se in realtà un po’ se lo aspettasse, come se quello fosse il giusto coronamento del convergere di tante piccole cattiverie, orchestrate in una sottile sinfonia di fastidi quotidiani. Maledetti fastidi che sembravano tormentarlo da due vite in qua, in una impercettibile tempesta di ritardi, appuntamenti mancati e di guasti improvvisi. Perfetti, assolutamente perfetti.

“Perfetto!” rimuginava ora col crescendo stupefatto della sua espressione, e la testa, tutta intenta a ruotare, sembrava già imbrunirsi di un minimo sgomento, appena accennato, ma del tutto sotto controllo. Anche gli occhi cominciavano a reagire, dilatandosi al rapido susseguirsi delle luci, allo squarcio enorme che avevano intagliato nell’oscurità della notte. Ma la sua coscienza non provava paura: c’era ancora tempo, ancora un’infinità di tempo prima di giungere alle dovute conclusioni.

“Del resto”, si soffermava malinconicamente a balbettare tra sé, “del resto è solo chimica, è pura chimica, alchimia nervosa se Sara stamattina mi ha lasciato quel biglietto. Io non avrei potuto fare niente per impedirglielo, anche se avessi saputo. Anche se avessi solo lontanamente immaginato cosa le frullava in testa lei non mi avrebbe mai permesso di immischiarmi.”

I piedi, senza che se ne fosse accorto, si erano disposti a difesa di un equilibrio precario, pronti a illudersi di sostenere un impatto clamoroso, mentre la pelle si increspava d’un minimo, piacevolissimo brivido. La scena si faceva sempre più nitida, e sempre più accecanti erano i bagliori dei fanali che lo raffiguravano a braccia spalancate nella strada. Inutile: sapeva che quel familiare stridio di freni a rallentatore era una bugia, la macchina non si sarebbe fermata a pochi millimetri dalle sue ginocchia, la sceneggiatura ordita da una speranza istantanea e improvvisata non avrebbe avuto alcun senso. Se ne avvide e cercò di darsi un contegno.

– Non ho più la forza mi dispiace –

Aveva letto a caratteri cubitali e ne era ancora frastornato. Dopo la prima, istintiva dilatazione, i suoi occhi adesso cercavano vigliaccamente riparo tra le palpebre socchiuse, come se avesse potuto non leggere la realtà impostagli in quel fotogramma, come se senza la vista avesse potuto tapparsi le orecchie e non ascoltare la perentorietà della sua esistenza srotolarsi tra i vapori del pneumatico che si surriscaldava sull’asfalto. Forse era la memoria ad incendiarsi a chiare lettere nel suo cervello, forse l’incapacità di comprendere il moto furibondo dell’agire umano, che nella sua vita aveva dolorosamente assunto l’aspetto di un foglio imbrattato d’inchiostro.

E cercava con la disperazione dell’ultimo minuto di nascondervisi, di assaporare con le residue energie la possibilità di cancellare il proprio vissuto, i propri ricordi, le proprie colpe; così come aveva imparato a fare negli ultimi dodici anni, tentava ancora una volta di mortificare il resto, di escluderlo, di serrarlo nel punto più remoto della sua mente come se non fosse mai esistito. La macchina, la macchina, pensa alla macchina! Aveva di fronte a sé un’automobile che stava per impattarsi contro di lui ad almeno ottanta chilometri all’ora! Neanche il tempo di pensarlo, neanche un istante per soffermarsi a considerare quanto è rapida e indolore una morte del genere, e lui sarebbe stato investito da una vettura che correva ad ottanta chilometri l’ora. La macchina. Quella era l’unica cosa che contava.

Ma ora la dicotomia non era più possibile: nel momento in cui aveva scoperto nello spalancare quella porta ciò che aveva sospettato per mesi, tutto gli si era improvvisamente catapultato addosso, tutto assumeva l’allucinante sensazione di essere braccato dai propri rimorsi, e non c’era angolo nella sua capacità di dissimulazione che potesse preservarlo dall’esserne vittima.

Nel frattempo di una Milano
semiaddormentata un’automobile
sfrecciava da anni contro la sua vita,
in maniera palese,
invadente, senza alcuna ombra di dubbio,
senza alcuna originalità,
sempre, costantemente, nello stesso identico modo.
E lui tuttavia continuava ad accasciarsi
di fotogramma in fotogramma,
con nuova e accresciuta risoluzione,
sul tranello che lo teneva imprigionato
al proprio stato di incoscienza.

E che Sara lo avesse abbandonato, togliendosi la vita, doveva essere in quel momento l’ultimo dei suoi pensieri. Sara, egoista fino all’ultimo, non ti sei smentita. Non aveva voluto rivelargli l’esistenza dei suoi attacchi di depressione, non aveva voluto condividere con lui, per l’ennesima volta, quegli attimi di nulla, la fame del vuoto che la tentava in silenzio, che esplodeva in risa insensate e colme d’angoscia, come se l’angoscia l’avesse ingoiata in lunghi fiotti di anni amari, e l’avesse riversata tutta insieme in rivoli di vomito e sangue.

Morte per eccesso di barbiturici”, avrebbe detto il medico dopo averle tastato il polso con aria grave, con una punta di rimprovero nella voce, una taciuta quanto perentoria accusa nei confronti di lui, che l’aveva trascurata, esclusa, allontanata, lui, che non aveva saputo fare della loro vita una cosa unica, una cosa speciale, lui che l’aveva estenuata con la sua indifferenza. Come avrebbe fatto a spiegarlo a Lisa, alla loro piccola, dolce Lisa? La mamma non c’è più…

Basta! Basta! Sara non c’entrava nulla, Sara non contava nulla! Tutto ciò che doveva fare adesso era pensare al set, alla macchina da presa, al suo lavoro: rifinire con quanta più maestria fosse capace la maschera che portava in volto. L’automobile si avvicinava e lui ancora non aveva sgranato gli occhi, ancora i suoi lineamenti non si erano alterati nell’urlo spaventoso di chi sta per essere spappolato, e ne ha tragica consapevolezza. Era arte, era assoluto dominio del suo corpo: le mani, ora tremanti, si erano già portate a coprire una faccia pietrificata di paura, con l’ombra delle dita che si allungava lugubremente sui suoi zigomi. E riusciva talmente bene a simulare il terrore che il suo volto era diventato inespressivo, bianco, cogli occhi di vetro, come se in realtà fosse già morto, come se avesse voluto concedere, a chi sapeva apprezzare la sua capacità mimica, una finezza, un colpo da maestro prima del gran finale.

Ora! Ora doveva gridare!

E lo fece con quanto fiato aveva in corpo, liberando in un solo momento tutte le sue frustrazioni, i suoi infiniti rimorsi e le sue incapacità con un verso straziante, abominevole, che per un attimo soltanto riuscì a coprire il fragore delle lamiere piegate nell’impatto della vettura.

 


SABATO NOTTE, ALLE DUE E QUARANTA, UN’AUTOMOBILE IN CORSO BUENOS AIRES HA INVESTITO E UCCISO IL NOTO ATTORE MILANESE GIORGIO ASTERRI. DOMANI I FUNERALI. AL CORTEO, CHE PARTIRA’ DALLA CHIESA DI SAN LORENZO, PARTECIPERANNO I CARI DEL DEFUNTO E I COLLEGHI DEL CAST DEL FILM “LA SCELTA DI SARA”, DI ENRICO BUCCIARDI, GRAZIE AL QUALE L’ATTORE HA TRIONFATO AGLI ULTIMI DAVID DI DONATELLO. LA SALMA SARA’ DEPOSTA AL CIMITERO MAGGIORE.

 

5 pensieri su “Fotogramma

  1. Boom! È stato proprio forte. Ho letto rapidamente come se stessi anch’io seduta in quell’auto in corsa. E poi mi è sembrato di vederlo, talmente che hai descritto bene il suo attegiamento, i suoi pensieri, la sua agitazione.
    Ho sentito anche la passione che ci hai messo nella scelta delle parole!
    Sfiziosa anche la notizia! Ma ho capito bene?! Ha investito un noto attore che faceva parte di un film intitolato proprio “la scelta di Sara” 😮: la ciliegina sulla torta 👌

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    1. no pagnotta, mi sa che non hai capito bene… il racconto è basato sulla scissione che lui – che è un attore, protagonista del film “La scelta di Sara” – prova tra realtà e fiction.
      lui vive l’incidente VERO, REALE che gli sta per capitare come la scena di un film da girare, mentre il film a cui ha partecipato ha preso il posto della sua vita.
      la notizia alla fine mette a nudo il paradosso in cui è caduto.

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