Ritratto minimo di Memo Benassi


In realtà la sbandierata omosessualità di Benassi non aveva mai lasciato tracce, né prova della sua esistenza e, come me, molti sospettano che egli non l’abbia mai praticata e forse non lo riguardava nemmeno come lui pretendeva. Ma era il solo mezzo di legare a sé gli altri con lo scandalo e non isolarsi nell’imbarazzo della sua totale frigidità. Il suo aspetto era dei più virili, come la voce del resto, anche se in questa serpeggiava qualche nota estrema che non raggiungeva l’isteria per il suo controllo di grande attore.

I suoi amori più profondi erano stati
la Duse e un cane, il Nani.

Della Duse, che lo aveva molto amato e ne aveva capito il talento e la solitudine, parlava come si parla di una madre adorata. Ne venerava i ricordi, gli insegnamenti che trasmetteva con generosità: la mia Regina negli Spettri, ben costruita, si valse di consigli preziosi sulla alterezza delle donne di Ibsen indagata dalla Duse, e così la descrizione di Madama Alving, da lei interpretata. Quei brividi di freddo che percorrevano le spalle esili della grande tragica stretta nel buio dei fiordi, quel paesaggio senza orizzonti salvo le rocce inaccessibili, la incomunicabilità col figlio che rievoca la cultura dei paesi solari li ho vissuti nella capacità di Benassi di raccontarli. Quello che aveva capito e imparato dalla Duse lo portava nel sangue, e chiunque ha lavorato con lui può dire di sapere molto sulla Duse. Anche aspetti stupendi di libertà. Per esempio – e non era il primo caso – dopo tournée estenuanti, Stati Uniti, America latina, Europa, la compagnia approdava nella riviera ligure davanti al gran sorriso del mare.

“È troppo bello,” annunciava,
“stasera non si recita.”

E all’amministratore disperato coi teatri pieni rispondeva col suo sorriso più spirituale: “Devo pur fare una riserva di bellezza per poterla esprimere. E con me i miei attori. È un tempo necessario questo, come quello delle prove, a vantaggio vostro e degli spettatori”.

Quando raccontava della Duse, dei suoi silenzi sulla scena e nella vita, di questi sorrisi in cui smarriva la memoria delle stesse parole da pronunciare, Benassi si infervorava come gli avveniva solo sul palcoscenico. Aveva momenti di credibilità assoluta ed era capace di interromperli bruscamente con un moto di stizza per uno spettatore che tossiva o produceva il minimo rumore. Quei suoi occhi dorati, come quelli di un’odalisca o di una pantera, scintillavano di passione.

Per il Nani i sentimenti di Benassi avevano toccato il culmine. Il Nani era un bel cane bianco, quasi grande, sommerso il muso e lo sguardo nel pelo, non precisamente mansueto con tutti, anche perché innervosito dalle continue effusioni, alcune improvvise e clamorose del padrone che lo adorava. Una delle più frequenti era una strizzata fervorosa ai testicoli. Viveva nel camerino o ai piedi di Benassi a tavola, a letto, ovunque inseparabili. Lo portava sulla spiaggia, al Lido. Memo Benassi era nato a Reggio Emilia, ma si diceva veneziano per elezione. Angelo Rizzoli, fondatore della dinastia, lo aveva tanto in simpatia che un anno gli concesse di non recitare, mantenendolo a Venezia dove gli consentiva anche moderati rischi al Casinò. La spiaggia per il Nani era il suo regno. Un giorno una signora passeggiava al Lido e fu aggredita dal Nani che non voleva darle accesso sopra una buca che stava scavando con impegno. La donna si irritò, pretendendo che Benassi richiamasse l’animale. Lui le intimò di cambiare percorso e non disturbare il suo cane. La signora indignata da tanta insolenza minacciò di mandargli il marito per dargli una lezione.

“Me lo mandi, me lo mandi suo marito.
Si divertirà certo più con me che con lei.”

Quando il Nani morì, si abbatté nel camerino di Benassi una tragedia privata che sconvolse lo spettacolo. Ad accorgersi che la povera bestia banfava malamente, era stata Olga Vittoria Gentilli. […] Olga Vittoria si credette in dovere di darne notizia a Benassi a spettacolo già cominciato, durante una sua uscita di scena che prevedeva il quasi immediato rientro. Quello che avvenne fu indescrivibile. Lo spettacolo si interruppe. Dal palcoscenico si invocò un medico in sala. Se ne presentarono una decina, convinti di dover curare Benassi in persona, tanto l’allarme era stato drammatico. Imbarazzati per il paziente che si trovarono invece a dover curare, alcuni se ne dichiararono incapaci con qualche altezzosità, rintuzzata prontamente da Benassi con epiteti feroci; altri più giovani o più intelligenti si prodigarono con gli interventi che l’emergenza di un’agonia richiedeva.

Benassi, inginocchiato accanto al divanetto del grande teatro veneziano, invocava il suo bel Nani, piangendo a dirotto. Quando spirò tra le sue braccia, non voleva credere alla sua morte e scuoteva il corpo inerte dell’animale, spiando l’ultimo lampo degli occhi innocenti e ancora amorosi fissi su di lui come prova di vita. Tale era la veemenza, che i medici – non un solo veterinario – dovettero piegarsi a tentativi estremi per convincerlo della sua morte, fino allo specchio davanti alla bocca per la prova del fiato.

La potenza tragica di Benassi si espresse in una estensione che sbigottì e sconvolse i comici presenti. Mai re Lear aveva pianto così Cordelia. Molti degli attori che funsero da coro improvvisato erano figli d’arte, allevati dai maggiori maestri dei tempi precedenti, da Zacconi, allora ancora vivente, a Salvini, Benini, i fratelli Grasso. Tutti erano tramortiti, medici compresi.

Quando bisognò pure dare al pubblico l’annuncio della interruzione definitiva dello spettacolo, qualcuno comunicò tra le lacrime che Benassi aveva perduto l’affetto più caro. L’emozione fu profonda. Ci fu un’ovazione commossa. La passione di un grande attore filtrò anche dal camerino, dove, invece che sul palcoscenico, si era consumata la sua tragedia.

Forse di più, perché
se ne era intuita la solitudine.

Fatto sta che le autorità concessero a Benassi uno spazio minuscolo fuori del terreno consacrato, ai Frari, il cimitero di Venezia. E si vide, coi fasti di un funerale vero, Benassi, solo, portare il suo bel Nani nella gondola infiorata, seguita da altre più luttuose ma anche infiorate, colme di amici, conoscenti, popolo.

Il grande attore non ebbe mai più cani.


Elsa De Giorgi


14 pensieri su “Ritratto minimo di Memo Benassi

  1. Io penso che me lo prenderò questo libro. Mi piace un sacco come scrive e come descrive i suoi soggetti.
    Mi piacerebbe anche sapere se questi, leggendosi, si sarebbero riconosciuti nelle sue parole.

    Grazie per queste perle preziose.

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      1. Come quelli per il tuo romanzo? 😉 é partito, penso che arriverà intorno a giovedì.

        (L’ho trovato in biblioteca quelli della De Giorgi, anche quello di Carnevali, mi sa che lo/li prendo lì)

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  2. Vorrei precisare che MEMO BENASSI, stratosferico ed inarrivabile attore, non è nato a Reggio Emilia, ma a SORBOLO in provincia di Parma, ssulla riva sinistra del Fiume Enza che divide le due province.

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      1. Lo so. Opere di questo livello meritano comunque un grande plauso in quanto rendono giustizia al piu’ grande attore italiano di teatro che rimase vittima di tanti pregiudizi e cattiverie pretestuose.

        Questo libro contribuisce senza dubbio a fare chiarezza e a non dimenticare le doti artistiche di un attore che illustrato in modo memorabile l’Italia nel mondo.

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      1. Grazie Claudio Canepari.
        So bene che MEMO BENASSI riposa nel Cimitero di Sorbolo.
        La sua tompa è posta sulla destra dell’entrata al Campo Santo.
        Una spessa lastra di marmo inclinata copre la tomba, sormontata da una statua bronzea dell’attore con la sua ,maschera.
        L’opera è dello scultore FRONI.

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      2. No attenzione, non facciamo confusione. Il monumento funebre posto sulla tomba di Benassi è dello scultore modenese VITTORIO MAGELLI (1911-1988). “Maschera di attore plautino”.
        A Sorbolo visse ed operò anche lo scultore LUIGI FRONI ma morì nel 1965 due anni prima di Benassi. Froni immortalò Benassi in una sua bellissima scultura in bronzo ora esposta al Centro Civico di Sorbolo.

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