Carlotta e le altre – seconda parte


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Proprio di fronte a me compare uno gnometto catanzarese. Scuro, imbacuccato fino al naso. Ha un viso che non capisco, tutto cappuccio e occhiali com’è, e mi chiede: “Aspetti Carlotta?”.

Siamo entrati nel museo, lei sfilandosi cappuccio e giaccone come a togliersi un’armatura, io abbozzando qualche battuta per rompere il ghiaccio. Ma senza troppo successo. Che aria seria che ha Carlotta. Tendo le orecchie per captare la sua voce di sirena, ma non ci riesco. Dal vivo ha un altro timbro, umano. Ripensavo al nostro strano primo contatto. Forse interdetto per il modo in cui si era presentata, o forse stupito per il suo aspetto così diverso da come ne avevo fantasticato, devo averla guardata con una smorfia quasi scioccata. Tanto è vero che lei mi ha risposto – o così mi è parso – con un’espressione che sembrava voler dire “Beh, non sono come ti aspettavi. E allora?”, il che mi ha fatto letteralmente impazzire. Diamine, questo sì che vuol dire avere personalità! Ho scambiato la mano che mi porgeva con un paio di baci calorosi.

Il museo era caldo e giallo, poco frequentato, e pure pieno di gente che si metteva sempre davanti alle teche che ci interessavano. Carlotta doveva conoscere bene tutti i manufatti esposti, avendo dovuto per settimane scriverne e parlarne, mandare foto e cartelle stampa ai vari giornalisti. Ma si avvicinava con circospezione, con uno sguardo neutrale, come fosse stata la prima volta che li vedeva. Era attratta soprattutto dai monili, dai piccoli oggetti, dalle coppe di vetro colorato che sembravano ostie tridimensionali, e dalle spirali blu dipinte negli antichi piatti di ceramica. “Che beeello”, mormorava di tanto in tanto trascinando la mia attenzione sugli oggetti che le piacevano. Dietro gli occhiali dalla montatura spessa e colorata, Carlotta ha uno sguardo fisso ma liquido, presta attenzione quando ascolta, e le sue parole, nel rispondere, spesso sono crescendo di sorrisi. La forma della sua bocca è irregolare. Si intona, mi viene da pensare, ai ghirigori dell’arte islamica, ma è infinitamente più carnale, più sensuale di un esercizio di stile. E pare abbia anche un bel culo. Glielo guardo di sottecchi, di profilo, mentre lei ignara si ferma davanti alle vetrine qualche metro più in là.

Scivolavamo di sala in sala, parlavamo e tacevamo, io prendendo più volte l’iniziativa e lei quasi sempre a debita distanza, ma ognuno mettendo dentro la mostra un tassello, un’immagine, un ricordo della propria vita, scampoli di viaggi e incontri. Carlotta viene da Como, dal lago, ma ha una nonna turca. In qualche modo me l’avevano suggerito le sue sopracciglia folte e nerissime. In Turchia non c’è mai stata, ma cita la Sicilia, e la Grecia. Sembra conoscerle bene, le racconta bene, con poche parole ma sempre giuste.

Non era come mi aspettavo. L’incontro con lei, intendo. Ero pronto a tonnellate di civetteria, a quella imbarazzante vacuità tipica dei discorsi che si fanno la mattina dentro l’ascensore. E invece Carlotta, pur non dilungandosi mai, nelle sue risposte ci metteva senso, entusiasmo, estro. Ragazza interessante. Ma non mi aveva ancora colpito. Semplicemente non mi ero annoiato. Il che, pensavo sorridendo del mio narcisismo, è già tantissimo.

Siamo usciti che Milano era tutto un frullare di venditori extracomunitari, coi loro braccialetti di cotone e gli elicotterini fluorescenti che salivano e scendevano per la sera umida e scura. “Se uno di questi cosi mi becca, giuro che li denuncio”, disse a un tratto lei senza scherzare, anzi ruggendo. Li guardava con ferocia, al punto che io mi sentii in dovere di sdrammatizzare con una battuta bonaria. Ma si trattò solo di un lampo di aggressività, uno strano inaspettato riflesso nel suo sguardo, che già consideravo familiare. “Allora, dove andiamo a mangiare?”, ha chiesto poi tornando a essere Carlotta.

Già, quasi me ne dimenticavo. Ma in programma c’era pure una cena insieme, proposta da lei sempre per e-mail e mai presa sul serio da me. Anche perché, avevo pensato, se la serata si fosse messa male io o lei ce la saremmo potuta battere glissando sulla cena con una scusa qualsiasi. Insomma, il cenare insieme lo consideravo un piano B per entrambi. Ora invece mi piombava piacevolmente addosso come un’occasione per conoscere meglio questa piccoletta irta di sopracciglia e ricci nerissimi. Tra l’altro deve essere una buongustaia. Dice di cavarsela ai fornelli, e la cosa che le riesce meglio in assoluto è la vellutata di carote. “Pensa, è talmente famosa tra i miei amici che quando la faccio preparo tanti vasetti e gliene mando un po’ a ciascuno col pony express!”. Pony express per la vellutata di carote? Diosanto, ma allora sei una radical chic… Però non oso dirglielo. Scendiamo in metropolitana, e un vecchio barbone ci viene incontro chiedendoci qualche spicciolo. Lei si cava di tasca un paio di monete e gliele dà col sorriso. “Che tenerezza”, mi ha detto, “se potessi me li porterei tutti a casa con me”. Cazzo, sei proprio una radical chic. Ancora una volta, mi limito a pensarlo.

Per capire com’è fatta una persona secondo me non c’è modo migliore di vedere il modo in cui si comporta a tavola, meglio se al ristorante, in campo neutrale. Guardo come tratta i camerieri, prima di tutto: il modo in cui una persona tratta i camerieri al ristorante è indice della sua gentilezza, della sua disponibilità, spiega bene come si rapporta agli altri. Dopodiché sto attento a cosa legge sul menù, se sceglie sulla base della descrizione del piatto, degli ingredienti o del prezzo. Generalmente attribuisco alla priorità che dà all’una o all’altra cosa la sua intraprendenza, la sua curiosità, la sua capacità di avere slanci. E anche di godersi la vita. Non rimango favorevolmente colpito da chi fa il difficile col cibo che non conosce e da chi si formalizza eccessivamente sui prezzi. Infine osservo in che modo tratta ciò che ha nel piatto. E anche come usa le posate. Ma mica mi interessa il galateo, sia chiaro: io non ho la più pallida di quale forchetta serve per l’antipasto e quale va invece riservata al dessert. Non posso però fare a meno di osservare come vengono adoperate, o non adoperate, le posate, come la persona le fa danzare nel piatto, soprattutto come le porta alla bocca e come le regge tra le dita. Così si capisce come fa l’amore.

Non dirò come Carlotta tiene le posate in mano perché francamente non me lo ricordo: la mia attenzione fu rivolta a tutt’altro durante le due ore e mezza che passammo insieme a tavola. Avevo come l’impressione che Carlotta ci tenesse a fare la padrona di casa.

Suggeriva i piatti, proponeva il vino,
giudicava se le salse erano buone,
come se lei fosse l’habitué e io il parvenu.
Mi divertiva quella situazione, anche perché di solito
sono io a interpretare quel ruolo con le ragazze.

A un certo punto dice che una volta ha sedotto il cameriere e si è fatta portare da lui nel cortile interno del ristorante. “Ma quella volta ero in tiro, col trucco e coi tacchi”, tiene a precisare un po’ civettuola. Non so perché ma un po’ mi ferisce l’idea che abbia fatto la cretina col cameriere. A chi voglio darla a bere? Lo so benissimo perché mi ferisce. Questa ragazza mi piace, e il modo inequivocabilmente confidenziale in cui mi tratta mi fa sperare che la cosa possa essere reciproca. Si è tolta il maglioncino. Forse il vino – Carlotta beve che è un piacere – l’ha accaldata un po’.

Ha braccia sottili e bianche, atletiche e guizzanti,
con tutti i muscoletti al loro posto
e le forme del polso e dell’avambraccio accentuate
da una lieve peluria scura
e fitte costellazioni di nei bruni.

Giapponese? Pizza napoletana soffice soffice come San Gennaro comanda? Trattoria toscana? Conosco un ottimo ristorante di pesce dietro lo Smeraldo… oppure c’è quest’osteria tipica milanese dove… no aspetta, altrimenti… Le parole magiche che avevano risolto la sua indecisione erano state: ristorante greco. “Sai cos’è il mal d’Africa, no? Ecco, io ho il mal di Grecia”, mi aveva detto con il tono che avrebbe potuto usare per rivelarmi il segreto stesso della sua esistenza. Così siamo andati a cenare in un ristorante che conoscevamo entrambi. Una locanda greca vecchia maniera romanticamente adagiata sul naviglio della Martesana, di fronte a un palazzone degli anni ’60 che sovrasta una fabbrica dismessa, tutta in mattoni. Un bravo architetto l’ha saputa trasformare in un’elegante dimora che ora nella bella stagione ha i balconi ricoperti di gerani. Insomma, uno di quegli angoli tipicamente milanesi che paradossalmente ti fanno dimenticare di essere in una metropoli di solito priva di guizzi come è Milano.

Ed è tra cucchiaiate di tzatziki generosamente spalmate sulla pita calda, bocconi di souvlaki d’agnello e sorsate di retzina che Carlotta mi ha parlato dei suoi viaggi in Grecia. Io, ancora una volta colto alla sprovvista nel giocare un ruolo che non conoscevo bene (anche perché, fatto veramente nuovo, la ragazza riusciva a ingurgitare più roba di me), ascoltavo quasi commosso i suoi racconti. Carlotta descriveva come se mi ci stesse accompagnando, tenendomi per mano, i neri quartieri del Pireo, il porto di Atene, dove in sandali e costume era andata a cercare per i bar malfamati una bottiglia di grappa greca; diceva stupefatta di aver visto vecchie architetture razionaliste – eredità dell’espansionismo fascista dell’ultima ora – schiaffeggiare l’Egeo dai porticcioli di isole grandi come scogli, su cui vivono ancora sparute comunità di anziani pescatori. E poi le Microcicladi, “quelle che ci arrivi solo mettendoti d’accordo coi capitani dei traghetti turistici, che ti lasciano lì e poi ti vengono a riprendere dopo una settimana”: ricordava di aver camminato dentro una caverna che sprofonda per centinaia di metri nel cuore di un’isola meta di pellegrinaggio di tutti gli abitanti dell’arcipelago. “Arrivano lì con le loro barchette tutti gli anni, alla fine di agosto, per la festa di San Giovanni”, diceva, “ed entrano nella caverna, che se ho ben capito collega un estremo dell’isola all’altro. Noi però abbiamo fatto solo il primo tratto, perché non eravamo attrezzati e poi era veramente troppo buio…”

Non mi sfuggì che quel “noi” – che mi parve volutamente vago – poteva riferirsi a “io e il mio ragazzo”. Ma lei non specificò nulla. Disse solo che aveva avuto esperienze di viaggio sia in coppia che con amici, e proprio quell’estate, dopo la Grecia, anche da sola. Del resto le nostre chiacchiere si inoltravano nella sera senza mai essere interrotte da telefonate, sms, sguardi al display del cellulare. Stavamo insieme dalle sette e nessuno aveva reclamato Carlotta, né lei aveva dovuto telefonare a ipotetici fidanzati, frequentatori o spasimanti. Solo al momento di alzarci da tavola controlla il telefono e mi annuncia che l’ha cercata sua madre. “Non la richiamo: tanto sa che se non le rispondo va tutto bene…”. Beh, non fa un piega, dico io.

Approfitto del fatto che deve andare in bagno e raggiungo la cassa. Dopo qualche istante arriva anche lei e mi chiede che sto facendo. Magari mi illudo, ma ho l’impressione che non voglia fare la solita commedia che inscenano le ragazze quando offri loro una cena. Perché, diciamoci la verità, le donne, pure le più emancipate, pure le più disinteressate, danno per scontato che l’uomo debba offrire, tanto è vero che gli si accende come una luce di sollievo nello sguardo quando gli impedisci di aprire la borsetta per prendere i soldi. E il giorno dopo, se non hai offerto tu, come minimo lo puntualizzano parlandone con le amiche o le colleghe. Come minimo. Non Carlotta. No, lei non si è preparata a uscire, non ha indossato il giaccone, non si è nemmeno rimessa la maglia. Non ha dato per scontato che pagassi io. Mi ha raggiunto perché non mi ha più visto al tavolo, ed è venuta a cercarmi con un’espressione interrogativa e l’aria un po’ assonnata.

Io la prendo per la pancia, forse un po’ troppo confidenzialmente
– ma come si prende una bambina, un orsetto di peluche,
o qualunque altra cosa che debba rimanere lontano anni luce
dal concetto di denaro – e la ricaccio con dolcezza nella sala,
ché deve vestirsi, ce ne stiamo andando.

Un po’ titubante lei accetta di tornare al tavolo, dove qualche istante dopo la ritrovo tutta imbacuccata. Usciamo, ed è un vero peccato che la serata sia finita.

La corsa in metropolitana è breve, solo due fermate: arrivati a Loreto lei prende una direzione, io un’altra. Prima di farmi scendere dal treno Carlotta mi abbraccia. Istintivamente, senza malizia, senza secondi fini. Così, proprio di slancio. E io, sempre più coinvolto e sorpreso, le restituisco un abbraccio goffo, stringendo il giaccone morbido che la imbacucca, e le sorrido pieno di gratitudine. Scendo dalla carrozza e la metro riparte. Attraverso i finestrini ci guardiamo e ci sorridiamo mentre il treno scompare in galleria. Tengo i piedi per terra, ci mancherebbe. È una situazione interessante, Carlotta è interessante. Ha un’immaginazione e una sensibilità che non si trovano facilmente nelle persone comuni, e il tempo con lei vola. Mi piace persino il fatto che è, senz’ombra di dubbio, una millantatrice. Ma io, in quanto cialtrone e narcisista, amo smisuratamente i cialtroni narcisisti. Però essere stati bene insieme una sera a cena può voler dire tutto e niente. Vedremo nei prossimi giorni. Intanto mi prudono le mani, ho voglia di mandare un sms a Martina, che mi aveva lasciato prima di quell’appuntamento con l’addetta stampa in preda a tutto il mio scetticismo. Chissà, forse l’ho trovata, le scrivo.

Ho scritto subito a Martina perché è con lei che parlo d’amore, da sempre. Gli altri, che accettano compromessi, gli altri, che stanno insieme a persone di cui non gliene frega niente, gli altri, che tradiscono, gli altri, dicevo, ormai hanno rinunciato a capirci: tutti e due troppo romantici, e tutti e due troppo esigenti, io e Martina siamo diventati per gli altri due fondamentalisti delle relazioni sentimentali.

Di tutta questa storia, Martina dirà:

“Mamma mia quant’è incoerente questa! Ma come si fa a uscirsene così? Do’, io poi ti conosco e sono sicura che non l’hai mai messa in imbarazzo o in difficoltà. Una cosa è sicura: questa ragazza è esacerbata e deve chiarirsi per bene le idee…”

Martina è assai più intransigente di me, dal momento che non è mai riuscita a trovare un amore. E a trent’anni è ancora vergine. Ma per lei non è solo questione di essere iperselettiva. Io non so esattamente cosa nel suo passato ha creato questo blocco, questa paura degli uomini, che poi è la paura della propria femminilità. So solo che da quando la conosco Martina non ha fatto altro che infatuarsi di idee e concetti, a volte solo di apparenze. La sua vita sentimentale è un’adolescenza che non è mai iniziata e che non è mai finita. Gli uomini con cui è uscita – dai quali, per fare un crudo bilancio, ha ricevuto in totale un bacio e due imprevedibili, rocamboleschi ‘mi spiace’, con tanto di fuga a gambe levate – non li ha mai conosciuti veramente. Non ne ha avuto il tempo. Non ne ha avuto il coraggio. Le cotte che si è presa non erano per loro in quanto persone, ma per il loro sorriso timido e misterioso, per il loro sguardo profondo eppure sfuggente, per il loro corpo slanciato e sportivo, eppure delicato e sempre curato, per la loro chioma folta e immancabilmente sormontata da un ciuffo ribelle. Ecco, questo è l’identikit dell’uomo che piace a Martina. Invariabilmente. Le piacciono solo tipi così, eleganti e un po’ effeminati. Io li chiamo ‘efebi’, ‘culisecchi’ o anche ‘lungocrine’, e lei, che va pazza per le mie trovate linguistiche, quando ne parliamo li cita alla stessa maniera tutta divertita, con una risata su cui affiora l’isteria. Nel momento in cui ne incontra uno, però, le passa tutta la vena satirica e diventa una cerbiatta.

È qualcosa di imbarazzante. Succede in metropolitana come per strada, nei negozi come al cinema. Arriva l’efebo di turno, impossibile non notarlo. Sia lei che io – ormai ci ho ben fatto l’occhio – lo scrutiamo con interesse, strabuzziamo gli occhi e poi ci guardiamo complici, trattenendo a forza il sorriso. Lui quasi sempre risponde lusingato allo sguardo di lei, ma si accorge subito della nostra intesa e soprattutto si accorge che lo sto osservando anche io. Mi guarda a sua volta. A me viene da ridere, e mi volto. È spaesato. Non capisce, non può capire la situazione. Se l’incontro è solo uno strusciamento rapido sul marciapiede, la cosa finisce lì. Ma se io, l’efebo e Martina condividiamo un ascensore, un negozio o peggio un vagone della metropolitana, il malinteso va per le lunghe, e spesso nessuno sa più dove guardare. Io ho quasi la sensazione che lui ci abbia preso per una coppia di scambisti.

In realtà di amici come noi due, come me e Martina, ce n’è pochi, e forse anche le nostre disavventure amorose ci hanno unito. Lei è al corrente di tutte le mie storie, e in qualche modo ha conosciuto in maniera diretta o indiretta molte delle donne con cui sono stato. So che mi appoggia, sempre. E non lo fa incondizionatamente, ma perché su queste faccende abbiamo la stessa sensibilità. Così quando le mando l’sms in cui le dico che Carlotta mi ha emozionato capisce al volo cosa intendo, e mi risponde pazza di felicità.

Il giorno dopo trascorro la mattinata a una conferenza stampa fuori Milano. Torno in redazione verso l’ora di pranzo e trovo ad accogliermi il comitato delle pettegole. “E allora, come è andataaa?”, mi chiedono quasi all’unisono mentre ancora sto sfilandomi la giacca e appoggiando la borsa. Non faccio in tempo a fare un resoconto della serata che loro mi incalzano per sapere se ho mandato a Carlotta un messaggino per ringraziarla. Devo ammettere che io la tentazione di mandarle il rituale sms ‘Grazie per la splendida compagnia’ ce l’avevo avuta, la sera prima. Ma poi ha prevalso la convinzione che è assurdo ringraziare qualcuno per il semplice fatto di essere stati bene insieme. “Ah, quindi non gliel’hai mandato? Ecco, sei un coglione! Io se fossi in lei non ti vorrei rivedere più”, mi dicono con sguardi pieni di riprovazione. Un po’ mogio, ma solo un po’, me ne torno alla scrivania e accendo il computer. Scorro le mail in arrivo e trovo un suo messaggio. Di Carlotta. Me l’aveva mandato la mattina. Rimango un po’ deluso dall’oggetto della mail: “The day after”, lo stesso identico di quella che mi aveva mandato Marilena il giorno prima. Allora è solo una prassi, una cosa priva di qualsiasi significato, mormoro burbero in uno slancio di pessimismo.

Grazie

di tutto quanto

E se ti sono sembrata una ragazza dai giudizi troppo precipitosi

è perché sono giovane, volubile, acidula, rapida e incostante

a presto

C.

Che spettacolo, penso. Leggo e rileggo, ripeto quella sequenza di aggettivi a voce bassa, ne gusto il ritmo, mi lustro gli occhi con quella che non è solo una mail, ma il manifesto di una personalità. E come uno smargiasso vado dalle pettegole a sbandierare che lei, lei mi ha scritto! Altro che messaggino di ringraziamento, altro che non voglio rivederti più. Menagrame! Arginata la boria, torno ad analizzare la mail. La scruto come il manufatto di un’antica civiltà, cerco di interpretarne i segni, vado a ritroso con l’immaginazione. Dunque, riflettiamo: abbiamo senz’altro ricavato impressioni diverse dal nostro incontro. Io pensavo al suo mondo, ai suoi viaggi, alle sue storie, lei si è premurata di giustificare alcuni suoi giudizi su delle idee che sto sviluppando per un romanzo, e che le ho raccontato. È vero. Sei troppo, troppo precipitosa, le avevo detto. Senza però volerla convincere della bontà della mia trama, solo chiedendole di lasciarmi finire di spiegare.

Leggo e rileggo quella mail. Ci metto mezz’ora per elaborare una risposta. Al diavolo le bozze, al diavolo il telefono che non smette di squillare. Serve una risposta che sia gentile ma ammiccante, confidenziale ma non troppo amichevole. Serve una risposta all’altezza della sua mail. Usa bene le parole, diamine. Le dico che sono io a ringraziarla per tutti i luoghi in cui mi ha portato, e che se quella che mi ha scritto è la lista dei suoi difetti, non vedo l’ora di conoscere gli altri. Lei però non mi ha risposto. Nessun’altra comunicazione quel giorno.

Il week end sapevo che Carlotta l’avrebbe passato a Bologna, a una fiera dedicata all’arte contemporanea. Per lavoro? Con la sua capa? Con qualcun altro? Questo lo ignoravo. La tentazione di mandarle un sms è forte, ho voglia di tastare il terreno, devo capire se posso prendere l’iniziativa al suo ritorno. Ci vuole solo un pretesto, e un approccio che non sia troppo invadente. Trovato: sul Corriere c’è un reportage sulla fiera.

Premesso che io mi intendo ben poco di scultura contemporanea,
a leggerlo e a guardare le fotografie sembra quasi
che più che opere d’arte siano esposte
astruse saldature di reticolati,
macchine per la misurazione del tempo
che nulla hanno a che fare con gli orologi,
meccanismi che assemblano concetti,
invenzioni da Archimede Pitagorico.

Glielo scrivo. Passa un buon quarto d’ora prima che mi risponda. Una risposta che esordisce con “Domenico, che bel pensiero”, e che mi sa un po’ di contentino: professionale, entusiasticamente professionale. Ma forse, penso, è in linea coi suoi modi spontanei, ingenui e gentili di ragazza comasca che il fine settimana, quando non va a sciare a Madesimo, lo impegna in opere di volontariato. Nulla di rilevante nel resto del messaggio. Insisto. Rilancio scrivendo un nuovo sms, che evidentemente non è stato abbastanza brillante da suscitare un’altra risposta. Peccato. Nessun’altra comunicazione quel giorno.

È domenica sera, sono tappato in casa mentre fuori dalla finestra infuria febbraio. Guardando i lampioni in controluce non si riesce a capire se piove o nevica, ma è bello lo stesso. Mi affaccio di tanto in tanto perché so che sta per arrivare il mio amico Tomma. Ci tocca una delle nostre serate a base di birra, chiacchiere più o meno esistenzialiste e mazzate, tante mazzate, alla Playstation. Francamente, non aspettavo nulla da Carlotta. Epperò avevo le orecchie tese, come ce le ha il mio gatto quando le rivolge verso rumori invisibili, suoni che devono ancora arrivare ma che lui ha già percepito chiaramente. Trilla il cellulare, è un messaggio, e io come in una premonizione so che è lei. Oppure stavo mentendo a me stesso talmente bene che in realtà non mi ero nemmeno accorto di quanto speravo si facesse viva. Evvai, questo sì che è un messaggio! È sul treno, tra Bologna e Milano. Il treno è fermo, in mezzo alla campagna. Le luci dentro il vagone sono spente, fuori c’è solo la pianura ghiacciata e le luci delle case lontane. Lei sta vivendo tutto questo – la descrizione, il ritmo, la scelta delle parole, è un capolavoro di intima semplicità – e ha pensato a me! Ha voluto dirmelo. Carlotta ha voluto condividerlo con me.

In quel preciso istante suonò il citofono. Era Tomma. Sono andato ad aprire la porta scortato dal gatto. Pure lui ringhiava sommessamente. “Ciao bello”. Accolgo Tomma con un sorriso a cerniera. L’ultima volta che c’eravamo visti gli avevo detto che avrei incontrato questa Carlotta, e insieme s’era riso del fatto che uscivo con una pr. Chissà che roba, confabulavamo, le pr sono tutte stronze. Un po’ perché è vero. Un po’ perché Tomma qualche mese fa è stato malamente lasciato – per la seconda volta – proprio da una che di lavoro fa l’addetta stampa. Doppie, interessate, disposte a tutto per ottenere un po’ d’attenzione di cui poi non sanno che farci. Ecco come sono le pr. Tutte. Dai, fammi rispondere a questa, gli dico cercando di mascherare l’eccitazione con il fastidio. Come odio questi preliminari di sms, botta e risposta, attese preventivate, risposte in punta di dita, ché devi sempre stare attento a non fare la mossa sbagliata, gli spiego. Ma non è vero niente: se potessi lo butterei fuori di casa, lui e la Playstation, per mettermi a messaggiare tutta la sera con Carlotta infagottata nel suo giaccone dentro lo scompartimento del treno.

Insidiato dallo sguardo scettico di Tomma ho cercato di scrivere un messaggio ugualmente romantico, ma mettendoci una sfumatura finale che speravo risultasse umoristica. Cioè, in pratica, dopo aver sottolineato la soavità con cui mi aveva comunicato il suo piccolo travaglio ferroviario, le ho chiesto se per lo meno stava al calduccio. Alla faccia dell’umorismo. Lei deve aver sentito puzza di tenero, e mi ha risposto secca, anzi seccata.

il calduccio è il minimo sindacabile

si è limitata a scrivere, e Tomma ha subito puntualizzato che non si dice sindacabile, ma sindacale. Vero. Però che cazzo! Sempre così, Tomma. Mi ricordo che anche un paio d’anni fa, durante la fase di corteggiamento con Marisa, che poi sarebbe diventata la mia ragazza, Tomma intercettò un nostro scambio di sms. Povera Marisa: aveva avuto il torto di non imbroccare un congiuntivo, un verbo minuscolo stretto tra le tante parole di un messaggio pieno di trasporto e dolcezza. E anche se ormai non ci sto più insieme da un pezzo, lui si ricorda ancora di lei per quel congiuntivo toppato. Oddio Marisa.

Io e Marisa siamo rimasti insieme per poco più di sette mesi. L’ho lasciata fondamentalmente per tre motivi. Prima di tutto, io stavo a Milano e lei a Roma, e nessuno dei due aveva la minima intenzione di abbandonare la propria città per andare a vivere in quella dell’altro. In secondo luogo, le piacevano troppo i centri commerciali, mentre a me viene quasi un esaurimento quando le necessità mi costringono a visitarne uno. Terzo e più importante motivo, non era innamorata di me. Mi voleva bene, questo sì. Con me ci stava non malaccio tutto sommato, questo era chiaro. Ma non era innamorata di me

Di tutta questa storia, Marisa dirà:

“Domé, quella ti sta a pigliare per il culo. Si è pentita di avergli fatto le corna e ora se la prende con te, lascia perdere. Lascia perdere proprio, questa è femmina fino al midollo.”

Viaggiavamo molto, io e Marisa, e fotografavamo molto. La passione per la fotografia era forse la cosa che più ci legava. L’intimità non era proprio il suo forte. Ogni tanto, la sera sotto le coperte, a casa mia come nelle camere d’albergo di mezza Europa, si abbandonava a qualche momento di tenerezza e a volte, quando ci metteva un po’ di passione, si faceva pure del discreto sesso. Anche se non mi baciava mai. Ed era fissata con l’igiene. Una vera ossessione. Spesso mentre iniziavamo a toccarci mi metteva la mano sul pisello e poi si annusava le dita. Se non superavo il test mi spediva a fare il bidet. “Sa di pipì, vatti a lavare”, intimava cercando di buttarla sul sorriso. Io, tutto frettoloso e di malavoglia, eccitatissimo, mi alzavo, correvo al bagno nel gelo della notte che aleggia fuori dal letto e corroso dal desiderio facevo rapide, superficiali abluzioni. Tornavo a letto con lui che ormai era diventato una proboscidina umida e umiliata dall’acqua fredda del bidet. Ma Marisa era capace di ripetere il test senza batter ciglio. La volta che mi disse che non mi ero lavato bene e che puzzava ancora di pipì, io, girandomi dall’altra parte, la mandai a cagare.

Ma quello che mi faceva davvero scendere il cuore nei calzini era quando, magari dopo due settimane di lontananza, al telefono le dicevo che bello domani ci vediamo, e lei rispondeva scocciata “Ah, già, che palle, devo fare la valigia…”. Ho provato a lasciarla tre volte. E ogni volta gliel’ho spiegato con calma, con delicatezza, con pazienza che io non volevo una storia del genere. E lei ogni volta giù a versare calde lacrime. “È che ho avuto troppe delusioni, non mi fido più delle persone. Ho costruito una fortezza intorno a me. Ci sono momenti che mi sento una barchetta sballottata in mare. E tu sei il mio porto”, mi diceva cose del genere, si stringeva a me singhiozzando, poi facevamo l’amore, senza preliminari controlli olfattivi e vibrando entrambi di un dolcissimo coinvolgimento. Io il giorno dopo, a colazione, cercavo di convincerla che comunque quella situazione non poteva andare avanti. Lei ascoltava mentre ripetevo cose già sentite tutta concentrata a spalmare la marmellata sul pane. Non c’era amore. Ma c’era affetto, e così, anche dopo esserci lasciati, io e Marisa siamo rimasti amici. Ci sentiamo spesso al telefono, e io, quando capitano, le racconto delle mie vicende sentimentali. Lei no, lei invoca il diritto alla privacy e glissa tutte le volte.

Cito Marisa per far notare a Tomma che è un tantinello cagacazzi, e che tutto sommato la svista di Carlotta la puoi risparmiare, dai. Ma lui sarcastico e ridanciano ribadisce che con un errore del genere è il minimo sindacale, anzi sindacabile, fare il cagacazzi. Ho capito che comunque vada con Carlotta, ormai è condannata: rimarrà nella storia come quella del sindacabile. Vabbeh, dammi un attimo che le rispondo, gli dico senza insistere. Dal momento che non mi ricordo cosa le ho scritto e soprattutto visto che lei non mi ha più risposto, non dev’essere stato un granché di messaggio. Nessun’altra comunicazione quel giorno.

Lunedì non perdo tempo. Mentre da casa cammino verso la metropolitana in una gelida mattina di sole le scrivo un sms in cui le dico che rischia di diventare la mia eroina: Carlotta mi aveva detto che lei tutti i giorni alle sette e mezza è in piscina. Se ci è andata pure oggi, dopo la serataccia in treno che ha avuto tornando da Bologna, è davvero una dura, le faccio intendere. La risposta arriva per e-mail, la leggo qualche minuto dopo essere entrato in redazione. Scrive solo nell’oggetto:

Ma scherziamo? Qui siamo dall’alba a pancia a terra  per l’Arcimboldo!

L’Arcimboldo era la mostra che stava preparando in quei giorni, uno degli eventi culturali milanesi più attesi dell’anno, con ogni probabilità una delle commissioni più importanti per il suo studio di comunicazione. Al che io, fregandomene bellamente che in qualche modo mi aveva detto di essere impegnata, ho cominciato a scriverle una serie di papiri con pillole della mia vita. Ai quali papiri lei rispondeva colpo su colpo, in maniera concisa, è vero, ma lasciandomi sempre spazio per scrivere ancora, e di più. Così, continuando sulla falsa riga della piscina le ho scritto dei miei nove estenuanti anni di vasche in agonistica, della volta che mi nascosi una macchinina sotto la cuffia di lattice e speravo che l’istruttrice non la notasse, e anche di quanto mi piace nuotare nel lago, riempiendo le mie frasi di roboanti, iperboliche metafore. Io a dire il vero straparlavo solo per trovare l’occasione di buttarle lì la proposta di un nuovo appuntamento. Carlotta rompe gli indugi, e con una mossa magistrale ottiene sia quel che vuole lei, cioè che la smetta di importunarla con tutte quelle mail, sia quel che voglio io, cioè un altro appuntamento, cosa che evidentemente aveva capito già dall’sms del mattino, o forse ancora prima. Carlotta mi scrive:

Parli troppo per un botta e risposta via mail, con te si può

solo andare a cena

È un genio, ma forse non sono ancora pronto ad ammetterlo. Vuole che sia più asciutto? L’accontento subito. E trasformandomi in un consumato Humphrey Bogart da chat, sparo:

Che ne dici di venerdì sera?

Invia, senza nessuna esitazione: o la va o la spacca. Simulo distacco, sedo le aspettative con forti dosi di fair play. Pazienza se mi dice di no, cerco di convincermi. Che ho da perdere, non avevo niente da perdere, mi ripeto. E invece no: mentre aspetto la risposta sento il cuore rimbalzarmi sullo schermo. E se il suo non fosse stato un assist ma solo un modo non troppo crudele di dirmi che sono un logorroico? Tutto sommato avrebbe ragione, lo so da me che sono logorroico, persino quando scrivo. E se pure mi capitasse di scordarlo, in redazione c’è sempre Cecilia a farmelo presente. E se avessi frainteso tutto? Chissà cosa pensa adesso di me. Che ho un secondo fine, che faccio così con la prima che capita, che sono un invadente. Peggio, un seccatore. I secondi passano, e siamo già oltre il tempo medio di risposta di Carlotta, che è di otto-nove minuti. Non risponde più, mannaggia. Ci sta pensando. O forse è impegnata. L’Arcimboldo, c’è l’Arcimboldo, dannazione. Finalmente nella casella di posta riappare il suo nome, quel nome che fino a tre giorni fa entrava e usciva dalla mia vita mescolato agli altri inutili nomi di tutte le altre addette stampa.

Migliori

Sì, se i miei non mi reclamano per questo week end, sono

tre settimane che non li vedo

Ah, ci hai messo la clausola, maledetta. È per farmi friggere? Però intanto mi ha detto di sì, e per quel che mi è parso di capire fino ad ora, Carlotta è una ragazza affidabile. Una cosa la fa se ha voglia di farla, e non dice balle. Quindi se quel venerdì non ci vedremo sarà perché deve andare davvero dai suoi. Comunque, nel caso, posso sempre accompagnarla io fino a Como. Dopo la cena, s’intende. Ecco come ti eludo la clausola. Glielo propongo, vediamo che mi risponde…

Com’è che non sei sposato?

Sorrido. No, gongolo. No, anzi, il mio ego è un drago obeso che si spancia dalle risate. Troppo facile, troppo facile! Da quel momento in poi abbasso le difese, non tengo più le orecchie drizzate, il battito cardiaco trova un po’ di pace. Ho fatto colpo, non c’è dubbio, e conquistare Carlotta è solo una questione di tempo, pochi giorni, un paio di appuntamenti, forse, e io potrò dirle quanto mi piace, senza inibizioni, e potremo baciarci, e tutto il resto, e cominciare una storia. Assaggerò la sua vellutata di carote. Io con Carlotta. E chi l’avrebbe mai detto? Facile, troppo facile! Quasi troppo bello per essere vero.

Da quel momento, e per tutti i giorni seguenti, c’è stato tra noi uno scambio fittissimo di messaggi ed e-mail. Impossibile ricostruire tutto quel che ci siamo detti, tutto quel che pensavo ci fossimo promessi. Io, appagato il mio narcisismo, avevo persino smesso di prendere l’iniziativa. Ogni mattina aspettavo paziente che si facesse viva lei . E lei non mi deludeva mai. Al più tardi verso mezzogiorno mi scriveva qualcosa. Fosse anche solo per dirmi che aveva voglia di cioccolata fondente, di cui è golosa, o che il lavoro la stava facendo impazzire. Ma in realtà tra un pretesto e l’altro trovavamo sempre il modo di raccontarci qualcosa di noi. Un giorno mi ha persino telefonato. “Ciao”, ho sentito alzando la cornetta, e sapevo che era lei. “Avevo voglia di rilassarmi un attimo, con tutte queste telefonate a questi rompipalle di giornalisti… domani sera vieni all’inaugurazione dell’Arcimboldo?” Carlotta non posso: ho promesso a un mio amico che l’avrei aiutato a montare la cucina. Si sta trasferendo, e non è molto pratico di queste cose. E poi non mi va di mescolarmi alla bolgia con tutti gli altri giornalisti… la provoco col cuore in gola. “Beh, ma poi naturalmente ci saremmo fatti un giro della mostra io e te da soli…”, sussurra con la sua voce di sirena. Non mi tentare, sbotto con la salivazione azzerata, perché se mi dici così mollo amico e cucina e vengo da te, le dico risoluto. “No dai, non puoi lasciare il tuo amico con la cucina smontata…”, in quel momento sento strillare nella cornetta un telefono. “Ascolta, devo lasciarti, qui non mi è concesso nemmeno il tempo di una telefonata!”, mi dice seccata ma con la voce ridente. Non preoccuparti, figurati, grazie per avermi chiamato, un bacio.

L’idillio è durato fino a giovedì mattina, il giorno prima della nostra cena. Per venerdì sera avevo pianificato tutto: sarei andato dal barbiere; avrei lavato la macchina; le avrei comprato una scatola di cioccolatini fondenti in una cioccolateria artigianale di Brera che fa veri capolavori; l’avrei portata in uno dei migliori ristoranti siciliani di Milano, dove ti servono dei cannoli che la crema di ricotta gliela infilano nella cialda proprio un attimo prima di metterteli sotto il naso. “Il mio dolce preferito è il cannolo siciliano”, mi aveva detto alla locanda greca mentre sgranocchiava un pezzo di baklava. Il mio piano l’avrebbe lasciata a bocca aperta, ne ero certo. Sennonché, durante uno dei nostri ormai abituali scambi di mail, mi dice che è veramente stanca. Che ha bisogno di riposare e di essere viziata. Al che io, senza più alcun controllo sul mio fanatismo, le scrivo che farò del mio meglio per viziarla. Carlotta risponde:

tenerezza

purtroppo dovrebbe essere compito di qualcun altro, che non

lo fa. Per fortuna ogni tanto si incontrano persone con pensieri

deliziosi, come te

Tenerezza… Qualcun altro… Tenerezza… Tenerezza.

Rileggo. Tenerezza. E sì, c’è proprio scritto “qualcun altro, che non lo fa”. Ma il problema è che c’è scritto “tenerezza”. Tenerezza. A me. Tenerezza, a me? Ma brutta stronza che non sei altro, ora me lo dici che sei fidanzata?! Con tutti i castelli in aria che mi ero fatto, le aspettative che avevo, la sicumera in cui mi crogiolavo per quell’appuntamento! E lei mi dice che le faccio tenerezza e che c’ha un altro che non si sogna nemmeno di fare tutto quel che avrei voluto fare io per lei! Ma vaff… Calma, manteniamo la calma. Sono incazzato nero con la stronza, e ci sono rimasto malissimo. Ma questo non deve saperlo, la stronza. Tenerezza. Ti faccio tenerezza? Non avrai nessuna soddisfazione, cara la mia Carlotta. Eccoti una risposta distaccata e moralisteggiante, non ti meriti altro. Stronza.

Non dovrebbe essere compito di nessuno, Carlotta.

Certe cose si pensano, si dicono o si fanno semplicemente

perché si sentono.

Comunque buono a sapersi che c’è qualcun altro!

Vediamo che mi dici adesso, stronza. Tenerezza, te la do io la tenerezza! Risponde a strettissimo giro, e mi sa che l’ha capito benissimo che ho accusato il colpo:

nel mio caso non si percepisce troppo, ma è giusto dirlo

vale ancora l’invito a cena?


CONTINUA…

11 pensieri su “Carlotta e le altre – seconda parte

      1. In realtà non c’era niente da salvare.

        C’è un qualcosa di femminile e tenero a tratti nella tua scrittura e nel modo di approcciarsi alle donne e al sentimento.
        E non è un difetto.

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      2. come ti dicevo, questa è la scrittura che scelsi per arrivare a Carlotta. l’approccio al sentimento e alle donne sì, è quello. e credimi che per come va il mondo se non è un difetto è senz’altro una difficoltà.
        ma la storia prosegue, ahime…

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