Paolo Villaggio avrà gloria nei secoli dei secoli. E per me non è una cagata pazzesca


FANTOZZIANO: [fan-toz-zià-no] agg. Di atteggiamento e mentalità pavidi e servili, attribuiti a un deprimente tipo di impiegato medio, alienato e perseguitato dalla sfortuna / Di situazione caratterizzata da eventi grottescamente sfortunati. / Goffo, grottesco.


«L’invidia è un sentimento nobile. Io vorrei l’Oscar di Benigni, i soldi di Berlusconi e un harem di veline». Sono d’accordo praticamente su tutto, tranne che sull’Oscar di Benigni, se questo significa fare a cambio di carriere e di gloria futura. Ovviamente non parlo della mia, di gloria. Ma di quella che avrà Paolo Villaggio, nei secoli dei secoli. Eggià: è un virgolettato del coriaceo attore genovese, quello in apertura. La dichiarazione è estratta da un’intervista che Villaggio concesse al Fatto quotidiano nel 2012, quando fu riesumato – più che corteggiato – da mezza stampa italiana in occasione del suo ottantesimo compleanno. Ma altre volte Villaggio parlò di Benigni come di un genio, soprattutto dopo il successo de La vita è bella agli Academy Awards del 1999. Certo, la scena di Sophia Loren che sventola il bigliettino del «…and the Oscar goes to…» urlando «Robbbertoo» rimarrà negli annali di Hollywood. Ma che sono tre statuette di stagno (esatto, per chi non lo sapesse gli Oscar sono fatti in latta dorata) rispetto all’eredità che lascerà Paolo Villaggio? Per me il genio è lui. Che poi non è solo un attore, un comico, né quel vecchio cinico iconoclasta che è diventato. È anche e forse prima di tutto un autore. Sì, uno scrittore con più di venti opere all’attivo, che spaziano dalla storia all’autobiografia, passando naturalmente per l’umorismo e la satira. E Fantozzi – chiaro: è questa l’inestimabile eredità di cui parlo – è prima di tutto una creatura letteraria.


OK, MA CHI L’HA LETTO?

Scommetto che se chiedo a ciascuno di voi se ha visto almeno un film sulla nostra amatissima merdaccia, tutti diranno di sì, rilanciando forse che anzi non se ne sono perso uno. Persino gli ultimi, i più tristi, peggio riusciti e per questo intrisi di involontaria malinconia. Ma c’è qualcuno che abbia mai letto anche solo un racconto fantozziano? Sarà già tanto trovare un cristiano che sappia che sul ragioniere più sfigato d’Italia (del mondo? È stato tradotto persino in russo) Villaggio ha pubblicato nove libri, tra raccolte e romanzi, più un fumetto fatto a quattro mani insieme a Francesco Schietroma, Fantozzi forever [Milano, Cairo Publishing, 2014]. Beh, tranquilli: non lo sapevo nemmeno io, c’è scritto su Wikipedia. Però qualcosa – specialmente le creazioni degli anni ’70 – l’ho letta.


fantozziUNA VERA RIVELAZIONE

Il primo contatto fu da ragazzino, con Il secondo tragico libro di Fantozzi [Milano, Rizzoli, 1974], a casa di mia nonna paterna. Era stipato in libreria vicino a Io speriamo che me la cavo [Milano, Mondadori, 1990], di Marcello D’Orta, e con quella copertina era semplicemente irresistibile. L’avrò letto e riletto trenta volte almeno, nelle interminabili ore che al Sud, a Natale, intercorrono tra un agghiacciante pranzone da 27 portate e una visita a qualche biscugino laterale. E non mi stancava mai. Mi intrigava il modo in cui quell’ometto di carta – che grazie ai film in tivù sapevo benissimo essere anche un uomo in carne, ossa ed espressione tragica – arrossiva, si deprimeva, sussultava di speranza e reprimeva la rabbia senza che mai Paolo Villaggio dovesse sprecare una parola per descriverne i sentimenti. Ero con lui, e lui era con me, semplicemente man mano che viveva – pardon, subiva – le sue avventure. Altro che Atreju, altro che Bastian e la Storia infinita: a seconda che indossasse lo spigato siberiano nei soffocanti padiglioni del Salone della Nautica o si ritrovasse con i polpi violacei dello scroto penzolanti in mezzo a una spiaggia di nudiste svedesi, io schiattavo di caldo o di vergogna assieme a lui. Le sciabolate dell’aria condizionata delle Lancia dei direttori naturali, gli appuntamenti improbabili al ristorante giapponese o da Gigi il cacciatore con la Silvani, il decadente jet set che gli propinavano le poche occasioni mondane della megaditta, la Italpetrolcemetermotessilfarmometalchimica… Per non parlare dei rarissimi scatti d’orgoglio («Per me, la corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca!»). Ero sempre con lui. E anche se all’epoca non potevo nemmeno immaginare quanto terribilmente realistiche – e italiane – fossero le dinamiche che metteva in scena, non avendo idea di cosa fosse il mondo degli adulti e soprattutto quello del lavoro, sentivo che c’era un fondo di amara verità in quella che non era una semplice parodia, ma la registrazione fedele della voce interiore che accompagna ciascuno di noi quando fa buon viso a cattivo gioco di fronte al grottesco della vita.


BUONA LA SECONDA

Tutti i libri di Fantozzi hanno questo impatto? Per me no. Soffermandomi sulla produzione della prima ora – disponibile, se non amate il vintage, nell’antologia Fantozzi, Rag. Ugo: La tragica e definitiva trilogia [Milano, Rizzoli, 2013] – mi viene da dire che Fantozzi [Milano, Rizzoli, 1971] ha avuto il merito di costringere Villaggio a dare una forma più definita a quella curiosa creatura partorita tra tivù, radio e riviste e a scinderla una volta per tutte da Fracchia (che sarebbe diventato l’occhialuto Filini). È stato poi incisivo nell’imporre il linguaggio terrificante e immediato che ha condannato Villaggio a costruire il proprio successo quasi esclusivamente su quella geniale invenzione. Ma bisogna aspettare Il secondo tragico libro di Fantozzi per godersi appieno il personaggio in tutte le sue sfumature. Che poi, più che sfumature sono feroci rasoiate di Villaggio al ragioniere, al suo entourage e a certi modi di fare e di dire della borghesia italiana, che in quegli anni ascendeva all’apice del proprio potere (d’acquisto). Che dire di Fantozzi contro tutti [Milano, Rizzoli, 1979]? Decisamente troppo narrativo. Dopo la doppietta cinematografica 1975-76 di Fantozzi e Il secondo tragico Fantozzi (diretti da Luciano Salce, che ha estratto personaggi e situazioni fuori dai racconti nemmeno giocasse con un libro pop-up) è come se l’autore avesse perso la capacità di immaginare dal nulla il surreale in cui faceva muovere i suoi burattini. Nel terzo libro Villaggio sceneggia, descrive, esplicita, infierisce sul ragioniere dando in pasto al pubblico (e non più al lettore) quel che il pubblico si aspetta. E a volte alcuni racconti risultano sequele ripetitive di disgrazie, con Fantozzi che troppo spesso anticipa la macchietta che sarebbe diventato di lì a poco sul grande schermo. Insomma, non mi è piaciuto granché.


IL SUCCO DEL DISCORSO

Ciò non toglie che  – per tornare al pensiero che ha dato vita a questo post – io davvero credo che Paolo Villaggio non abbia nulla da invidiare a Roberto Benigni. Certo, oggi il comico toscano è guardato dalla platea mondiale come un intellettuale, un ambasciatore della cultura italiana antica e contemporanea, un cantastorie finissimo che sa come dosare leggerezza e gravità in ciascuna delle fiabe che propone. Ma Villaggio è stato, è e sarà un caterpillar che sfonda la coscienza e la lingua degli italiani e non solo. Platonico. Dantesco. Shakespeariano. Kafkiano, Pirandelliano. Sono tutti aggettivi sopravvissuti ai decenni, ai secoli, ai millenni. Dubito che, nonostante gli Oscar e le letture e le lauree Honoris Causa nelle università di mezzo mondo, si forgerà mai l’aggettivo “benignano”, né tanto meno che – se pure fosse – resisterà negli anni. Fantozziano invece esiste. E credetemi: (r)esisterà per sempre. Anche perché, in fondo, Fantozzi è geneticamente programmato per fare questo e null’altro.


P.S. Fantozziano non è direttamente riferito al nome di Villaggio come negli altri esempi, farà notare qualcuno. D’accordo. Ma se dico donchisciottesco anziché cervantesiano pensate che a Miguel De Cervantes, lassù nel paradiso dei geni letterari, gliene freghi qualcosa…?


 

Chi è arrivato fino in fondo si merita questa chicca

11 pensieri su “Paolo Villaggio avrà gloria nei secoli dei secoli. E per me non è una cagata pazzesca

  1. Fantozzi è un personaggio enorme, che alcuni non sopportano perché semplicemente non ne colgono la portata descrittiva di un certo modo di essere, il ragioniere sfigato degli anni Sessanta – Settanta, quello che non riusciva a profittare degli anni del boom a causa della propria inettitudine…
    quello che oggi sarebbe un lusso (il posto fisso da impiegato in una grande azienda) allora veniva vissuto da perdente…
    e Villaggio è stato grandissimo nel prendere il tema del perdente, che era stato sdoganato dalla corrente della New Hollywood in versione tragica per farne una versione comica…
    detto ciò (riflessioni in libertà), anch’io sono tra quelli che conosce a memoria i primi due film (gli altri sono in netto calo e ripetitivi) ma non ha letto i libri… o almeno, avevo comprato la trilogia ma giace sul mio scaffale intonsa…
    ps: per finire, il paragone benigni-villaggio in effetti è improprio… nel senso che villaggio è immortale, ma a livello italiano (perché la sua comicità non si comprende fuori dal nostro Paese)… Benigni invece non sarà immortale (ma aspetterei a dirlo) ma ha avuto molto più successo a livello internazionale perché la sua comicità (pur basata sul dialetto e su certi vizi dell’italiano medio) è decisamente più “globale” (forse per il fatto di rifarsi alla mimica di Chaplin)…
    ciao

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